2024
Dott.ssa Mara Folini Ceccarelli, Direttrice Museo Comunale d’Arte Moderna Ascona
In linea con il filone che il Museo dedica alla valorizzazione delle figure più significative del territorio ticinese, questa mostra mette in dialogo le opere recenti della coppia di artisti Ruth e Giancarlo Moro di Cavigliano, nate da più di cinquant’anni di vita comune e di confronto artistico coeso.
Pur nella loro diversità di stile e modalità esecutiva, le opere dell’uno sembrano risuonare in quelle dell’altro, per assonanza nella scelta dei colori, per la stessa analisi rigorosa nella realizzazione compositiva e, soprattutto, per la stessa atmosfera di fondo (o “stato d’animo”) profondamente armonica ed essenziale: un modo di procedere che trova coesione proprio nel loro interesse comune per l’universo formale orientale. Davanti alle loro opere, si ha come l’impressione di essere proiettati in una dimensione sospesa oltre il tempo e lo spazio, dove tutto risuona all’unisono, all’infinito.
Frutto di lunghi processi di selezione e di sintesi, le loro opere “preziose” mirano all’essenzialità, alla pienezza assoluta e olistica dell’universo: dove tutto, caos e ordine, vive della stessa dimensione relazionale intrinsecamente armonica. Tra micro e macrocosmo non c’è distinzione, tutto è retto da un flusso, da un’energia, da una luce sottesa relazionale sempre in fieri che scaturisce dalle feconde/vitali strutture organiche di Ruth e dalle “spirituali” /mentali forme-colore di Giancarlo che, nel loro farsi processuale, tendono all’armonia e all’equilibrio dell’universo, dove l’uno è tutto, un tutto interconnesso. Va da sé che Ruth e Giancarlo Moro, con visione cosmocentrica (che implica un processo di conoscenza non binario ma relazionale e integrato), manifestano nelle loro opere astratte, energie, vibrazioni, flussi interconnessi dall’alto valore psico-fisico-emozionale, che suscitano effetti stimolanti, cinetici, vibratori sullo spettatore, invitandolo a relazionarsi con esse con predisposizione aperta, meditativa e contemplativa, prima ancora che reattiva. La stessa predisposizione meditativa che sta alla base del loro procedere artistico, che implica i tempi lunghi di una pratica costante, realizzata e sperimentata con cura e attenta elaborazione, con propensione aperta e senza pregiudizio, con concentrazione intensa alla “vita”, nell’attesa che scatti l’ispirazione.
Entrambi si sono formati nell’ambito delle avanguardie degli anni Sessanta, seguendo idealmente quella linea analitica tipicamente nordica che, dalle esperienze astratte di Kandinsky e di Klee, attraverso la Bauhaus, giunge alle radicali proposte minimaliste degli anni Settanta, anticipate nel 1915 dal famoso “Quadrangolo” nero di Kazimir Malevic. In Ticino, nel 1971, le loro riflessioni in ambito astratto si affinano verso un sintetismo minimalista, ancora più astratto ed essenziale.
Immersi nel ritmo e nelle atmosfere della natura della loro casa a Cavigliano, tra terra e cielo, Ruth e Giancarlo condividono il loro atelier ricavato da un’antica casa rurale: lei, al piano inferiore, più vicino alla terra e alle sperimentazioni empiriche, lui, a quello superiore, più vicino al cielo e più incline alle speculazioni filosofiche.
Ruth, al piano inferiore, vicino alla terra in cui mettere mano, si lascia sorprendere dai meravigliosi frutti della natura – foglie, brattee, follicoli, samare e steli – che raccoglie e seleziona con cura botanica, prestando attenzione alle loro caratteristiche formali ed evolutive e alla loro stagionalità, tanto è immersa/concentrata in sé stessa, nell’intento di sviscerare i loro “segreti”, le loro essenze, le loro intrinseche strutture meravigliosamente interconnesse da reti filamentose sempre in fieri e vitali. Facendo della natura la materia prima del suo operare, attraverso una sapiente e complessa procedura artigianale di purificazione del materiale, procede in profondità eliminando la parte molle del materiale vegetale per svelarne le nervature sottese e ottenere delle strutture vegetali intrinsecamente autonome e potenzialmente germinative, materia prima delle sue creazioni. Lasciandosi meravigliare dagli intrinseci andamenti vitali, liberamente evidenziati dai colori nella materia stessa delle sue strutture vegetali, come provenissero da una fonte energetica primigenia, Ruth le assembla in meticolose texture dalle forme espressive ora più intricate o geometriche, ora più luminose o cupe ma sempre vive, in sintonia con il procedere sotteso della natura. A volte lasciandole libere dal supporto come fossero delle veline nello spazio, altre integrandole in supporti di carta rigorosamente realizzati a mano e o ancora elaborate per frottages, nel loro insieme questi lavori realizzati con meticolosità e grandissima precisione da cesellatore, sono evocativi di una natura interconnessa, tanto essenziali nella loro concretezza di elementi naturali, tanto infinitamente lirici e poetici, nella loro trasformazione pittorica profondamente empatica e rigenerante.
Giancarlo, al piano superiore, distilla i freddi puri colori a olio del cielo (o dell’acqua) - blu, verde, indaco – o, meno spesso, quelli più caldi del sole – rosso, giallo, arancioni – sondandone le infinite potenzialità nello strutturarsi in modo autonomo e processuale in griglia e in superficie spaziale assoluta, quasi ascetica. Applicando un rigore scientifico colto, attento ai meccanismi della percezione (dall’ottica, alla Gestalt, alla cinetica), vaglia, sperimenta le intrinseche potenzialità e interferenze del colore puro espandendolo, combinandolo in infinite gamme e gradazioni di toni, di tinte e di sfumature, calibrandone pesi e contrappesi espressivi, profondi come pietre, leggeri come cieli diafani. Servendosi come base di una struttura a griglia ortogonale, perfettamente delineata sulla tela, costruisce architettonicamente delle texture “sinestetiche” dalla valenza fortemente espressiva, sia sul piano psicologico che tattile, tanto i suoi colori ne sono il loro soggetto primo, sondato nelle sue valenze essenziali e autosufficienti. Tanto i colori sono scelti in base alle loro valenze emozionali per trasmettere messaggi/concetti potenti sullo spettatore, tanto l’autorialità dell’artista si è ritirata per dar spazio ai processi sottesi al colore, esplorati scientificamente per farne emergere/scaturire, oltre la forma, l’intrinseca luce: essenza prima, primordiale del colore. Un‘ arte complessa, che non può essere compresa in modo esaustivo al primo sguardo, ma che richiede da parte dello spettatore lo stesso tempo lungo e attento del creatore, prima di essere colta nella sua essenza più profonda. Lo spazio della tela è una zona silente, una zona “altra” in cui, grazie all’energia impalpabile della luce e alla forza evocativa del silenzio, l’occhio di chi osserva può intraprendere la costruzione del nuovo, lasciandosi trasportare dalle dinamiche interne delle tessiture che, come fossero vive, giocano tra i pieni e i vuoti, appaiono e spariscono, a seconda del movimento dello sguardo, in una dinamica che è puramente soggettiva e individuale, tanto lo spettatore, non più passivo, è il perno attivo dell’opera.
Con un approccio spiccatamente analitico e meticoloso, sia Ruth che Giancarlo procedono in profondità, selezionano, calibrano, purificano con cura ogni elemento “materiale” della loro arte – che sia colore o vegetale – per percepirne l’essenza, o quell’intrinseco “suono interiore” kandinskyano che fa tutt’uno con il loro sentire interiore, dove non c’è più distanza tra dentro e fuori, tanto la loro arte è testimone di un lungo processo di “autoriflessione” sincera e autentica, in sintonia con il flusso della “vita”, tanto la loro arte è concentrata nel cogliere intuitivamente/razionalmente oltre la superficialità del mondo, quell’energia fondante, o quel quid, o non so che di “spirituale”, che dà unità al tutto. Entrambi applicano rigore scientifico alla loro ricerca artistica, ci restituiscono tessiture minimaliste, tanto astratte quante vibranti sentimenti ed emozioni senza tempo, rammentandoci una natura interconnessa, in cui la concretezza del mondo naturale si sposa con la dimensione poetica dell’espressione pittorica.
Difficile rimanere indifferenti davanti alle opere di Ruth e Giancarlo Moro, frutto di una lunga e meticolosa ricerca radicale a carattere scientifico e orientata all’essenziale, in cui maestria artigianale e fascino artistico si fondono senza soluzione di continuità, proiettandoci in uno spazio “sospeso” di infinite relazioni possibili, suscitando un profondo senso di armonia che ci invita alla contemplazione e al benessere interiore. In cui non c'è più distanza tra la terra e il cielo, tra il dentro e il fuori, tra micro e macrocosmo, ma tutto è immerso in un'energia di pace e armonia a volte più gioiosa, a volte più cupa ma sempre vibrante.
In questo "gioco di specchi", il messaggio che la coppia di artisti ci restituisce è sicuramente quello di avere cura del nostro benessere psico-fisico e del nostro pianeta, con razionalità e con amore, ascoltando la natura dentro e fuori di noi con autenticità, in sintonia con l'universo.
2024
Emanuela Burgazzoli
«Laddove l’organo centrale di ogni percezione temporale e spaziale
– che sia la mente o il cuore della creazione – determina tutte le funzioni,
quale artista non vorrebbe abitarvi?
Nel grembo della natura, nel terreno ancestrale della creazione,
dov’è custodita la chiave di tutto?»
Paul Klee
L’arcipelago Ruth e Giancarlo
Come ogni autentico artista, anche Ruth e Giancarlo Moro possiedono la capacità di restare e muoversi in quei territori liminari dove la creazione si traduce in una miracolosa incarnazione di apparenti contraddizioni. Avventurarsi nella loro opera significa esplorare un arcipelago di isole vicine, eppure diverse tra loro, contraddistinte da un’identità forte, da un linguaggio originale che si nutre di echi e risonanze dell’altro; tutto ciò reso possibile dal profondo legame affettivo e dalla complicità intellettuale che legano da sempre marito e moglie in un rapporto quasi simbiotico. Entrare nell’atelier del nucleo storico di Cavigliano, dove lo spazio è stato suddiviso per permettere alla coppia di lavorare in autonomia pur restando in stretto contatto, significa anche poter esplorare un ecosistema che si è costruito nel corso dei decenni basato sulla convivenza artistica e umana; uno spazio attraversato da invisibili flussi energetici, un silenzio solcato da cenni di approvazione, di sguardi interrogativi, da illuminanti annotazioni dell’uno sul lavoro dell’altro: tutto questo è da immaginare come una trama impalpabile, ma consistente, come se si fosse all’interno di un campo di forze.
Ruth Moro
Impalpabili, eppure consistenti: si potrebbe partire proprio da questi due aggettivi per immergersi nell’universo artistico di Ruth Moro che continua, anche nei suoi lavori più recenti e in parte qui esposti, la sua avventura di creatrice di sorprendenti “metamorfosi botaniche”, riprendendo e sviluppando le direttrici che erano già presenti nella mostra del Museo cantonale di storia naturale del 2018. Le serie realizzate negli ultimi anni – Punti e contrappunti, Onda su onda, Variazioni su fondo nero – ci invitano alla contemplazione di nuove trame e nuovi ritmi, risultanti da contrazioni e pulsazioni che fanno vibrare le superfici delle tavole e delle tele lavorate da Ruth Moro.
All’origine di questi lavori ci sono le delicate strutture delle brattee di Hydrangea quercifolia, di follicoli di Firmiana simplex e delle samare di acero trattate seguendo un articolato procedimento di preparazione che l’artista ha sviluppato nel corso degli anni. Una successione di gesti e di fasi che richiedono accuratezza di gesti, tempo e fatica; un antefatto artigianale che è parte integrante della fase creativa. Quello che segue Ruth Moro è un preciso rituale – quasi magico, quasi alchemico – che permette di estrarre la delicata struttura di un elemento vegetale per mutarlo in segno artistico che diverrà elemento portante, o particella elementare, di un più ampio progetto visivo. Si potrebbe dire che le sue opere nascano nel momento esatto in cui comincia la raccolta delle piante, o a pensarci bene addirittura prima, da una intuizione o da una notazione mentale dell’artista durante una passeggiata; segue poi una fase di confronto con questa “materia prima” in un “corpo a corpo” che vede l’artista lavare, sbiancare, sciacquare e asciugare accuratamente e infine pressare i vegetali per poter ricavarne le fragili impalcature nascoste che saranno selezionate e catalogate con cura per le loro dimensioni e la loro forma. E soltanto in un’ultima fase, quella propriamente di creazione dell’opera, queste minuscole strutture vegetali saranno accostate con meticolosa pazienza, sulla tela o sulla tavola, per formare composizioni di una sorprendente compattezza e coerenza formale.
Composizioni in cui emerge un movimento interno che si articola in sequenze ritmiche regolari, come per esempio nella serie Variazioni sul nero; qui si leggono schemi geometrici dal rigore quasi grafico, che è il risultato di un metodo che si affida a “griglie” preparatorie; schemi che entrano in una dinamica dialettica quando le singole tele o tavole vengono accostate a formare dittici e trittici, come accade nella serie di Punti e contrappunti. Mentre nella serie intitolata Da punto a punto lo schema è meno evidente al primo sguardo; osservando con attenzione emergono dei pattern circolari che l’artista non potrebbe probabilmente ricavare se non nel tempo lento che richiede il gesto dell’assemblamento delle minuscole brattee sullo sfondo; quel gesto della mano che si lascia guidare dalle differenze di dimensioni e di orientamento delle forme vegetali, che di volta in volta risaltano sugli sfondi bianchi, neri o blu. L’alternanza di colori diversi e l’introduzione di elementi artificiali (i colorati dot stickers in Punti e contrappunti che ricordano anche le “composizioni resistenti” di Adriano Pitschen) contribuiscono a creare una dimensione di profondità nello spazio bidimensionale della tela, quasi fossimo di fronte a bassorilievi pittorici. Saremmo allora in presenza di una originale e rinnovata forma di Op Art, quella particolare arte astratta che produce effetti ottici giocando su combinazioni di forme e colori per restituire l’illusione di uno spazio tridimensionale; ma l’analogia finisce qui, alla sola ambizione di rispettare un ordine che nell’artista di Cavigliano risponde forse a un’esigenza ritmica e rimanda alle architetture lontane di una mappa cosmica o dell’infinitamente piccolo.
In opere come Variazioni su nero, Variazioni in blu, o Tra i verdi etc – la composizione è dominata da uno schema geometrico, mentre nella serie Blu (Blu I e II) le strutture vegetali ricoprono la superficie come in un all-over informale a formare dei reticoli gestuali che ricordano alcune composizioni di Mark Tobey. Sembra pertinente citare le parole dell’artista Enrico Castellani: “quel che accade all’interno della superficie è casuale (…), una casualità controllata da ciò che ho predisposto sul perimetro (…), la casualità è generata dalla progressione aritmetica” . Un’astrazione che in Ruth Moro appare come una scia di musica che si snoda sulla tavola o sulla tela come uno spartito, con i suoi contrappunti e i suoi respiri; uno spartito in cui l’artista bilancia meticolosamente gli intervalli di vuoti e di pieni, alternando elemento naturale e artificiale, giocando sui contrasti tonali, amalgamando gesto artistico e morfologia botanica, in un processo di estetizzazione della scienza che era cominciata in ambito biologico con la figura di Ernst Haeckel.
Ma il cammino di Ruth Moro segue il suo corso, alternando i formati, che passano da quelli piccoli a formati medio-grandi e monumentali, in cui l’universo pittorico si espande e si amplificano gli effetti del gesto; approfondisce anche la sperimentazione sul piano cromatico, con la scelta di colori assoluti, come nel caso delle grandi tele Bande notte e Bande giorno. In queste opere l’artista ha realizzato due sontuosi monocromi in cui le delicate filigrane vegetali si fondono con lo spazio pittorico, e allo stesso tempo diventano segno, strisce o “solchi” come quelle che a intervalli incidono i campi coltivati. L’utilizzo di colori nobili come l’argento e il nero, o il blu notte, rende queste opere quasi esoterici richiami ad altre dimensioni.
Nelle stampe (Segni di idrangea), una sorta di derivato dei dipinti, l’artista procede per frottage; le impronte delle strutture vegetali restano visibili, modulate in una serie di varianti cromatiche basata su una gamma di grigi e sulla reiterazione di schemi. E ancora una volta la sensazione è quella di un fremito che attraversa la superficie, di strutture morfologiche in movimento, vitali, come quelle di microrganismi osservati al microscopio, sorpresi dallo spettatore in un istante decisivo, quello di passaggio dal caos primigenio all’ordine della creazione: è uno dei momenti in cui si ha consapevolezza che le componenti dell’arte di Ruth Moro convergono verso quello spazio impossibile, “in cui convivono astrazione non oggettiva ed elemento naturale” .
In tutte le sue opere si avverte una forza sottile che sembra sprigionarsi dalla superficie; un potere che non dovrebbe stupire, perché se è vero che nella preparazione di erbe curative influisce anche la condizione mentale dello sciamano che coglie, sceglie e prepara le piante, allora potremmo ipotizzare che le strutture vegetali di Ruth Moro conservano e racchiudono anche la sua impronta spirituale, l’energia sottile dell’anima che le ha preparate. Più che a mere composizioni talvolta si ha l’impressione di trovarsi al cospetto di soglie, oltrepassate le quali abbiamo la possibilità di dissolvere l’io, forse persino di espandere coscienza e conoscenza; di fronte alle tele di grande formato in particolare ci si può immergere con corpo e mente, sentendosi dopo qualche tempo alleggeriti dalla scoperta di un codex segreto, che forse è quello del battito interno della vita.
Giancarlo Moro
Disposte, come in un cammino che scorre parallelo e complementare alle opere della moglie Ruth, ritroviamo le opere di Giancarlo Moro; i suoi dipinti si offrono all’osservatore come un’avventura dello sguardo, che viene catturato progressivamente dallo spazio pittorico per esserne alla fine totalmente assorbito, a condizione però che ci si conceda il tempo sufficiente per osservare le sue tele, da vicino e a distanza, cambiando il punto di osservazione. Una pittura astratta, e quindi liberata dalle preoccupazioni mimetiche, “interamente incentrata – e concentrata – sulla superficie pittorica” , che negli esiti più recenti ha ulteriormente affinato i suoi strumenti e il suo vocabolario.
Anche in queste serie recenti Giancarlo Moro conferma la sua capacità di suddividere lo spazio pittorico sia geometricamente sia pittoricamente (come osservava a suo tempo Konrad Tobler), creando strutture che vedono la successione di linee verticali e orizzontali nello stesso dipinto e l’uso ricorrente della matrice geometrica del quadrato, come risultante delle “griglie” e dell’incrocio di linee oppure come elemento in evidenza di una invisibile scacchiera. A queste strutture rigorose ed essenziali che fanno della superficie pittorica anche uno spazio architettonico, si aggiunge la ricerca sui passaggi tonali e sull’accostamento dei colori, sul contrasto tra textures di diversa consistenza, che Giancarlo Moro riesce far scivolare l’uno nell’altro per dissolvenza, al punto da creare sfumature quasi impercettibili. In alcuni casi sulla tela al centro si creano solchi di luce che aprono spazi di percezione nuovi, quasi fossero fenditure su altri mondi, conferendo allo spazio pittorico profondità inaspettate.
Siamo di fronte a un paradosso apparente, formulato dal pittore Hans Hofmann, che dà vita a una tensione interna all’immagine, in un gioco di forze in espansione e contrazione . Ma lo spazio pittorico di Giancarlo Moro appartiene al rigore geometrico proprio dell’arte concreta della scuola zurighese e scorre lambendo il rigore ascetico di Agnes Martin, fino ad arrivare agli “spazi luce” del lombardo Antonio Calderara. Si potrebbe aggiungere, pensando ad artisti che hanno operato nel territorio, anche al tedesco Erich Lindenberg e ai suoi Quadri spaziali o ai suoi Quadri d’ombra, in cui è possibile cogliere un’analoga capacità di indugiare tra ombra e luce, tra forma e antiforma e una rigorosa suddivisione dello spazio. Nei dipinti di Giancarlo Moro il colore stesso (nelle tonalità fredde degli azzurri e dei verdi) si fa spazio e si percepisce un fremito nascosto che percorre la composizione e si risolve in una impressione di complessiva armonia e di apparente pacificazione.
Apparente, appunto, perché la pittura di Moro non è – ci sembra – mai risolta, né pacificata, ma come le pagine di un diario personale e interiore, affacciata a una soglia, tesa a capire ciò che verrà dopo; procede quindi per variazioni e combinazioni sempre nuove che portano la sua pittura a diversi livelli di intensità e a differenti esiti compositivi. A questo vocabolario interno si aggiungono altri aspetti a rendere l’esperienza dell’osservatore più complessa: il rapporto tra la tela e la parete, con una pittura che si estende oltre i confini del quadro; di una pittura che dallo spazio della parete è in grado di staccarsi come se si trattasse di un “bassorilievo” pittorico; la dialettica tra orizzontalità e verticalità (interna ed esterna al quadro) che costruiscono un rapporto diverso con l’osservatore, posto di fronte talvolta a immaginari orizzonti, ai colori dell’infinito, a una geologica stratificazione di linee, oppure a immaginari pannelli di porte che lasciano trapelare la luce, rivelano e nascondono; e infine la relazione tra queste “pagine”, legate l’una all’altra, a volte intenzionalmente a formare dittici e trittici, oppure idealmente legate in un ipertesto, seppur autonome nel loro discorso interno.
E il discorso che ne emerge è il discorso della pittura su sé stessa; perché “la pittura astratta è pittura di pittura. È come se facesse parte di qualcosa che ancora non c’è” . Ed è una pittura che attinge anche alla memoria visiva dell’artista; si vede – e si dipinge - anche ricordando; in queste eleganti e rigorose strutture, Giancarlo Moro ha trasposto probabilmente anche gli echi e le suggestioni dell’arte e dell’architettura giapponesi, con quella predilezione per le trasparenze e le strutture geometriche che organizzano gli spazi e filtrano la luce nelle abitazioni tradizionali nipponiche; in un testo del 2018 di autopresentazione Moro scriveva che “l’intervallo nasce da un percorso che impone o suggerisce cambiamenti di direzione, pause e, come in un giardino giapponese, ci invita alla contemplazione”.
Analogamente alle opere della moglie Ruth, anche nei dipinti di Giancarlo Moro, si coglie una pulsazione, data dalla scansione di intervalli di tempo, dal ritmo imposto dalle diverse distanze tra le linee, dallo spessore delle strisce, dalla disposizione delle forme e delle griglie, dal peso diverso degli spazi interni al quadro e infine dall’accostamento nelle “zone di transizione” tra tonalità chiare e scure, morbide e dure. Una molteplicità di variabili che concorrono a spezzare la simmetria e a creare un ritmo sincopato, uno “sbilanciamento bilanciato”. L’artista evita però il rischio di un’anonimità puramente grafica e si sottrae a ogni tentazione decorativa o espressiva. L’esito finale non è però fredda distanza perché, ancora una volta, la durata del fare e dello sguardo rende possibile un rapporto di intimità con il corpo di queste opere, in cui “il potenziale della pittura è nella superficie dipinta e il risultato è nell’equilibrio delle sue dinamiche interne” . Come ha rilevato Dario Bianchi “una ricerca quindi di assoluto sembra contraddistinguere il fare artistico di Moro che nel commisurarsi quotidianamente con forme e colori anela alla perfezione; una perfezione mai leziosa ma tale da rendere manifeste e leggibili le sue intenzioni estetiche e affermerei anche etiche”. Un progetto estetico ed etico dunque realizzato grazie alla pittura che è anche pratica esistenziale implacabile, per poter resistere allo sfaldarsi di un mondo, quello del tempo odierno, abitato sempre più da simulacri e maschere.
Sorvolando dall’alto l’arcipelago dell’opera di Ruth e Giancarlo Moro nella sua complessità, ci giunge il suono di una musica segreta, silenziosa, che resta celata a chi non si sofferma il tempo necessario; il loro è un progetto artistico grazie al quale il caos primigenio si fa ordine, conservando l’imprevedibilità del caso e confermando (come ormai ci ha rivelato anche la fisica quantistica) che la realtà è costituita da una fitta e complessa rete di relazioni e interazioni; è inoltre progetto estetico in cui il dato materiale supera sé stesso e il gesto è un distillato del “vuoto” mentale che implica la lunga esecuzione delle opere.
Se fare arte è “mettere al mondo uno spazio vivente”, per riprendere le parole della filosofa americana Judith Butler, l’arte esigente di Ruth e Giancarlo Moro si affianca alla poesia, che è “l’albero spirituale della vita” e come le sue foglie, le loro opere “mormorano, con risonanza e resilienza, risollevando dallo spazio originario l’uomo inumano” .
1. Adachiara Zevi, Peripezie del dopoguerra nell’arte italiana, Einaudi, 2006, p.162
2. Peter Killer in catalogo Ruth Moro. Pagine romane, opere 2006-2010, Museo cantonale d’arte – Ala Est, 2011.
3. Marco Franciolli in catalogo Giancarlo Moro, opere 2006-2010, Museo cantonale d’arte, Ala est, 2011.
4. Riccardo Venturi, Mark Rothko. Lo spazio e la sua disciplina, Electa, 2007, p.77: “Se la sfida consiste nel suggerire una profondità non illusionista prodotta dalla “realtà plastica”, la “natura del pittorico rende possibile conseguire la profondità senza distruggere l’essenza bidimensionale del piano pittorico stesso”.
5. T. Pericoli, Arte a parte, Adelphi, 2021, p.91.
6. A. Pitschen, intervista a cura di Francesco Pellegrinelli nel catalogo: Adriano Pitschen. Forme presenti, Museo Villa Pia Porza, 2018, p.77.
7. Jean Flaminien, L’essere che confida, Book editore, 2023, pag. 123.
2024
Considerazioni per un ritratto di coppia in arte
Maria Will
L'indifferenza non esiste. Nemmeno quella, reciproca, fra i luoghi e le esistenze che vi sono ospitate. Le loro diverse nature infatti, poco a poco, arrivano sottilmente a compenetrars
Ruth e Giancarlo Moro da più di quarant'anni abitano a ridosso di un raccolto giro di case dalla rustica signorilità, modellato sulla sapienza del tempo e adagiato in un paesaggio di quiete e di dolce luminosità. Da lì, la vista, che, oltre le colline che portano al Monte Verità, include una larga fetta di lago verso la riva del Gambarogno, viene a chiudersi su di uno scorcio curiosamente tagliato del Gridone; gran montagna peraltro, il cui profilo offre da molteplici prospettive un sicuro punto di orientamento.
È precisamente al Modino di Cavigliano, a una manciata di chilometri da Locarno, che la casa di Ruth e Giancarlo Moro sorge, dominante un breve giardino-orto a doppio terrazzo e – scendendo ancora un poco – collegata tramite un ulteriore terrazzo all'atelier, dove i due artisti si dividono gli spazi di lavoro. I due edifici, casa e atelier, sono stati progettati dal medesimo studio di architettura (che – e qui importa davvero osservarlo – ha per linee guida il rispetto dell'esistente e del territorio): la casa ex novo e, circa vent'anni più tardi, nel 2004, il secondo edificio, ricavato dalla ristrutturazione di una vecchia costruzione contadina. Che gli architetti, autori dei due progetti, siano famigliari stretti di Ruth e Giancarlo Moro (ossia Paolo e Franco Moro, fratelli di Giancarlo; con la partecipazione, per il disegno dell'atelier, di Vanessa Moro, figlia degli stessi Ruth e Giancarlo) non fa che sottolineare la volontarietà e il carico delle intenzioni intellettuali e sentimentali affidate alla configurazione di questo luogo di vita e di lavoro, che si presenta – in conclusione – come un vero e proprio luogo d'artista. Entrarvi, da amico o da visitatore interessato a vario titolo all'opera di Ruth e Giancarlo Moro, significa percepire la naturalezza che lega un modo di essere – il loro, senza cesura tra l'artista e la persona – allo scenario quotidiano in cui essi si muovono. Un modo che passa anche attraverso il piacere di un momento conviviale, preparato e servito con cura e gesti precisi, mai superflui, attorno all'ospitale tavola, sulla quale passano spesso i frutti dell'orto di casa. Convivialità pienamente goduta, accompagnata da franche conversazioni sui fatti dell'arte e della politica così come sulle più varie e ordinarie e fondamentali quisquilie del vivere. E volentieri la compagnia si prolunga in combattute sessioni di partite a carambola. Nel frattempo l'occhio ha potuto posarsi su questo o quel nuovo oggetto – un quadro, una piccola scultura (parecchi fra questi di colleghi artisti) oppure una sorprendente creazione della natura (un baccello, una capsula di forma insolita, ad esempio) – che è venuto a punteggiare una piccola rassegna di mirabilia, all'interno della quale le opere dei padroni di casa (a rotazione, le più datate lasciano il posto a quelle di più recente realizzazione così da consentire un severo esame autocritico) si inseriscono con discrezione estrema. Raffinatezza nella semplicità, pienezza nell'essenzialità sono concetti che si estraggono tanto dall'osservazione della quotidianità di Ruth e Giancarlo Moro quanto dalla considerazione delle opere che firmano. Ognuno le proprie, certo. Benché difficilmente si potrà negare il debito di interdipendenza che ciascuno di loro ha nei confronti dell'altro. Infatti Ruth e Giancarlo Moro, giovani sposi nel lontano 1968, genitori di Vanessa e di Igor e ora nonni di cinque ragazzi, formano una esemplare coppia di artisti. Incarnano cioè un fenomeno di grande interesse nella storia dell'arte, non raro e che merita, caso per caso, di venir messo in rilievo (non da ultimo per quanto attiene l'apporto femminile nel caso di coppie storiche come Auguste Rodin e Camille Claudel o come Jean Arp e Sophie Täuber-Arp, ad esempio).
Ruth e Giancarlo Moro svolgono un percorso nell'arte parallelo e coincidente, se così si può dire. Entrambi giungono alla creazione seguendo un accesso non canonico (provengono da un ambito lavorativo di altro genere) ma distinguendosi per una determinazione non comune, considerato perdipiù che iniziano a mettersi alla prova affrontando esposizioni pubbliche con relativo ritardo (intorno ai cinquant'anni di età) a paragone di un normale curriculum che parta dalle scuole d'arte. Condividono palesemente una scelta di campo in favore dell'astrazione o, meglio, dell'aniconicità quale sistema ideale per l'espressione di equilibri ineffabili della visione. Lui ci arriva meditando sulle avanguardie e neoavanguardie tra Europa e Stati Uniti; lei ci arriva sperimentalmente e quasi intuitivamente servendosi delle suggestioni che ricava dalle manipolazione di vegetali nell'ambito della Paper Art; lo fa superando con un colpo d'ala formidabile il puro significato artigianale legato al procedimento specifico. L'avvicinamento artistico tra i due passa anche saggiando (episodicamente e quasi timidamente) la compatibilità dei rispettivi moduli espressivi, quando Giancarlo ingloba nei propri quadri fogli di carta a mano realizzati da Ruth e ne esalta la valenza materica e segnica. L'intesa definitiva tuttavia si attua con la curiosità che li fa interessare alla cultura tradizionale orientale e giapponese in particolare (noto il fascino e l'influenza che tale cultura ha esercitato e esercita sull'arte moderna occidentale!). Occasione di conoscenza favorita dal mondo della Paper Art – nel quale, si sa, gli impulsi dei paesi del Sol Levante sono determinanti – e che Ruth frequenta da protagonista. Per conseguenza, ritmo e spazialità assumono, nella composizione delle rispettive opere di questi due artisti, accenti ancora più assoluti, pulizia disegnativa ancora più rigorosa fino a far coincidere superficie e profondità.
Affinità tuttavia non significa sovrapponibilità. E infatti le ricerche di Ruth Moro e quelle di Giancarlo Moro procedono su binari distinti. L'esplorazione di Ruth, che la porta ad un astrattismo pieno (quasi concretismo), si fonda su un ordine di tipo razionale sostenuto da una competenza tecnica continuamente allargata e rinnovata (si vedano le incantevoli opere potenziate dalla trasparenza della resina oppure le recenti e fin qui inedite serigrafie che portano ad un altissimo grado di immaterialità il valore irrinunciabile della decorazione). Per suo conto, Giancarlo, da una posizione problematicamente filosofica, conduce una ricerca di segno in qualche modo opposto, con un moto che dalla perentorietà dell'astratto trasmuta nell'inafferrabilità del reale e contingente (lo suggerisce anche il lungo processo di definizione dei suoi dipinti, frutto di una elaborata e delicata stesura del colore, portato al risultato voluto per mezzo di successive, innumerevoli velature). La riflessione sul formato entro cui fare apparire la visione, sul ruolo nodale che esso riveste nella costruzione creativa, appartiene ad entrambi gli artisti: centralità, orizzontalità, linearità sono gli assi portanti di due differenti e complementari ricerche: l'una, quella di Ruth, salda nella sua oggettività trasfigurante; l'altra, quella di Giancarlo, vibrante di silenzio e di infinito.
Intanto, l'alto timpano vetrato che conclude il muro a nord della parte di atelier dove lavora Giancarlo mantiene il costante legame visivo con il bosco e il cielo e ne lascia entrare la mobile luce senza ostacoli. La luce, che con l'ombra, sua compagna, i due artisti amano osservare negli effimeri giochi che generosamente fa apparire sugli scuri delle finestre di casa. Note di poesia, di nostalgia per un bello e un'armonia sentiti minacciati nella loro fragilità. Monito che si ritrova tra le 'pagine' di Ruth e Giancarlo Moro, facce di una medesima medaglia: più netta e solare quella di lei, più soffusa e malinconica quella di lui.
2024
Claudio Guarda
La rassegna in corso al Museo di Ascona mette in dialogo le opere recenti della coppia di artisti Ruth (Svitto 1944) e Giancarlo Moro (Ginevra 1944), frutto di una vita comune e di un confronto artistico coeso.
In effetti, pur lavorando con stili, tecniche e modalità diversi, le loro opere esprimono una forte assonanza che trova il suo punto originario in alcuni elementi di fondo, concettuali ed estetici, comuni ad entrambi come il loro posizionamento nell’arte non figurativa e una radicata affinità con il pensiero orientale. Si tratta di elementi distintivi e costanti che, per strade dissimili, entrano tanto nella loro vita quanto nella loro arte, come testimonia la loro storia che nel corso dei decenni è andata sempre più avvicinandosi: non per quanto appare in superficie, ma per ciò che sta a monte, nello spirito che le anima. Proprio per questo Mara Folini l’ha voluta intitolare ‘Gioco di specchi’, dal momento che “pur nella loro diversità esecutiva, le opere dell’uno sembrano risuonare in quelle dell’altro”, ragion per cui non sono state esposte in spazi distinti, ma in continua correlazione, le une accanto alle altre.
Ora, chi ha avuto modo di seguire lo sviluppo della loro arte nel corso degli anni, o quantomeno nell’ultimo decennio, non potrà che rimanere sorpreso, già entrando nella prima sala, di fronte alle novità formali che caratterizzano la produzione dei loro ultimi cinque anni. In particolare la sensazione di trovarsi di fronte a un’arte di grande rigore, ancor più sorvegliata e pensata rispetto a quella che la precedeva, ma comunque conseguente a quella. Un passo che è un affondo verso ulteriori livelli di forma e di pensiero, frutto di una grande compostezza dell’opera qua e là appena intaccata da pause e silenzi, da leggeri spostamenti o eventi minimi, da presenze, assenze o dissolvenze che disarticolano o muovono il piano di lettura e inducono a fermare il passo, a osservare quanto succede, a sintonizzarsi con la dimensione contemplativa e meditativa, ma anche sottilmente esistenziale, che ne emana.
Che altro mai sono, infatti, quei vuoti, quelle leggere linee di assenza, quegli scarti che tramano certe opere di Ruth Moro, come appaiono Sul Nero 1 e 2? Ciò che colpisce nello sviluppo complessivo di questa sua ultima produzione è la dimensione più strutturata ma anche più pittorica che ha acquisito la sua arte, non solo per l’ampiezza dei formati o l’utilizzo del colore, ma più ancora per la novità e freschezza delle composizioni, per la mobilità delle forme, per la varietà delle soluzioni. Cosa di certo non facile per chi sostanzialmente opera avvalendosi di un unico elemento di base – una delicatissima struttura vegetale depurata delle parti molli e poi colorata, frutto di un paziente lavoro preparatorio – a partire dal quale crea poi le sue composizioni muovendo tra addensamenti (tanto da arrivare a saturazioni monocrome e sistematiche dell’intero formato) o alleggerimenti di spazi, forme e colore; tra il rigore della geometria o delle lineee rette e la libertà di chi si muove Da punto a punto dando origine a una mobilità percettiva di aggregazioni curvilineee che varia con lo spostamento dell’osservatore. Tra stasi e mobilità, la memoria corre al celebre ‘Punto, linea, superficie’ di Kandinsky, ma anche a certi effetti ottici e compositivi connessi all’arte cinetica e programmata che si risente pure nelle ‘variazioni sul tema’ in opere giocate sull’alternanza di Punti e contrappunti. Ma c’è anche di più: cosa vuol dire costruire un sistema di complesse relazioni e mobilità interne a partire da una sorta di petalo, se non cercare il punto di incontro tra il naturale e l’umano, tra l’elemento cellulare di base e il progetto della mente, tra l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande? Inserendovi perfino, talvolta, il prodotto tecnologico rappresentato dai dot stickers che entrano a far parte dell’economia del quadro.
Mentre Ruth si muove prevalentemente sul piano della superficie, Giancarlo opera invece soprattutto su quello della profondità, delle emergenze. Messi da parte i sottili vibrati del colore dato a spatola, adesso la sua pittura si è ancor più decantata, direi quasi assolutizzata, fatta com’è di linee, superfici e strutture non di rado appena visibili, che sembrano filtrare da un fondo indistinto verso la luce, passando attraverso colori delicatissimi, quasi monocromi ma che in realtà svariano quel poco che basta per via di ripetute velature che attenuano fino quasi alla dissolvenza l’impianto strutturale e architettonico che in percepisce al fondo della pittura. Anche qui non mancano i richiami della memoria, della storia artistica lontana e vicina (da Mondrian e dall’arte minimalista agli Spazi-Luce di Calderara); di certo, considerata per rapporto alla sua storia artistica, mai come qui la pittura di Giacarlo Moro ha raggiunto esiti così alti di interiorizzazione, un incedere silente e meditativo dentro un ‘vuoto attivo’ che si propaga e lascia l’osservatore come sospeso su una soglia inafferrabile: che è il vero tema di questa sua pittura. Pur nella diversità che li contraddistingue, le opere ‘astratte’ di Ruth e Giancarlo Moro rivelano dunque un’affinità di fondo non solo nella comune scelta dell’astrazione, ma ancor più nell’intento concettuale che le anima, non esclusa la sensazione che vi si specchi pure un sottile sentimento del vivere.
2024
Regaida Comensoli
Il Museo Comunale d’Arte Moderna di Ascona presenta ‹Gioco di specchi›, un’esposizione a cura di Mara Folini, che propone un’interessante sintesi della carriera dei coniugi Ruth e Giancarlo Moro: una panoramica della loro affascinante e profonda simbiosi artistica.
Pur mantenendo stili e tecniche distinti, i lavori di Ruth e Giancarlo Moro presentano un’affinità: si manifesta non solo nell’uso di palette cromatiche simili e nella attenzione alla composizione formale, ma anche nella fascinazione per la semplicità delle forme tipiche dell’arteorientale. Entrambi i Moro hanno radici nelle avanguardie artistiche degli anni Sessanta, ispirandosi al rigore analitico del movimento Bauhaus e alle esperienze astratte e spirituali di artisti come Wassily Kandinsky, Paul Klee e Kazimir Malevic. Nel corso della loro carriera, i Moro hanno sviluppato una riflessione sempre più profonda sulle forme astratte e minimaliste, giungendo a una sintesi estremamente essenziale.
Ruth (*1944), nel suo studio di Cavigliano, trae ispirazione dalla natura circostante. Il suo processo creativo inizia con la raccolta di elementi vegetali come foglie e fiori, che vengono accuratamente selezionati e lavorati per rivelarne le forme nascoste. Questi materiali vengono poi immersi nel colore o assemblati in composizioni strutturalmente rigorose. Le sue opere, come le serie ‹Variazioni sul nero› (2023) e ‹Variazioni in blu› (2022), sono caratterizzate da un equilibrio delicato tra rigore geometrico e leggerezza naturale. La tecnica del frottage, utilizzata nei lavori grafici come ‹Segni di idrangea› (2023), evidenzia la trama delle strutture vegetali in composizioni raffinate e meditative.
Giancarlo (*1944), lavorando al piano superiore dello stesso atelier, esplora le potenzialità del colore puro, dedicandosi a una ricerca pittorica che riflette il suo interesse per la percezione e la scienza del colore. Le sue opere, spesso dominate da tonalità fredde come il blu e il verde, indagano le relazioni tra colore e spazio, creando superfici pittoriche che sembrano pulsare di vita propria. Attraverso l’uso di forme geometriche, come il quadrato e la griglia, Giancarlo riesce a suddividere lo spazio in maniera metodica, dando vita a composizioni che esprimono sia un rigore scientifico sia una profonda sensibilità artistica.
Il titolo della loro doppia esposizione al Museo Communale d’Arte Moderna di Ascona, ‹Gioco di specchi›, racchiude il senso del lavoro di due personalità distinte, ma complementari, suggerendo il profondo dialogo creativo che si instaura tra le opere dei due artisti. La mostra, pur concentrandosi su lavori recenti, è un’occasione unica per immergersi nel loro universo artistico, composto dall’incontro tra rigore formale e bellezza naturale, un’oscillazione che scandisce il tempo delle stagioni e i ritmi che alternano solitudine e simbiosi.
2019
Dalmazio Ambrosioni
Non occorre essere biologi per capire, gustare e essere pervasi dalla personale di Ruth Moro al Museo di storia naturale a Lugano. Basta amare la natura, esserne un po’ anche curiosi visto che ne siamo figli, coltivare la voglia di indagarla, di apprezzarne le molteplici manifestazioni nelle quali siamo immersi e sostanziare quell’istinto primigenio che ci spinge a saperne di più.
E poi entrare curiosi nelle cinque stanze dell’allestimento della mostra, ognuna raccolta attorno ad un vegetale (Equisetum telmateia, Hydrangea quercifolia, Firmiana simplex, Tilia, Acer), nel museo luganese. Che non è prioritariamente una sede per l’arte, ma le sue collezioni possono essere indagate anche da questo versante, ogni raccolta ha qualcosa di “artistico” anche nella sua configurazione visiva, nel suo sviluppo.
Aiuta a capire anche questo la mostra “Metamorfosi botaniche, Il linguaggio artistico di Ruth Moro”. Già nel titolo pone l’accento su due aspetti distintivi. Il primo è insito nel concetto di metamorfosi, trasformazione: un elemento vitale che permea tutti i mondi nei quali siamo immersi e che già in sé unisce la natura e arte (non a caso il rapporto tra scienza e arte è uno dei grandi temi dello scenario culturale di oggi); il secondo è quel “linguaggio artistico” che indica inequivocabilmente la tipologia dell’intervento dell’autrice, la quale non imita la natura, secondo uno dei fondamenti dell’arte di sempre, ma la include “quale elemento costitutivo dell’opera”, come ben indica Marco Franciolli nel saggio introduttivo al catalogo. Elementi di natura (foglie, petali, sepali, steli, brattee, frutti, semi, cortecce…) sono ad un tempo i suoi pennelli i suoi colori, le sue forme anche materiche, insomma tutti gli strumenti per l’arte, ed anche la fonte di ispirazione. La conferma viene dall’accostamento in ognuno dei cinque spazi espositivi ben coordinati tra le opere e le carte botaniche, ossia sintesi di elementi vegetali, così da creare un dialogo tra materia ed espressione che da una parte risponde a fini di utilità pedagogica e dall’altra dimostra come già nelle basi di natura esista un che di artistico, basta saperlo rilevare e valorizzare. Se poi aggiungiamo altri supporti tecnici, come gli apparati digitali che ulteriormente qualificano l’esposizione, vediamo come non si sia trascurato nulla per aiutare il visitatore ad entrare in queste opere nelle quali vien naturale cogliere un riverbero di illustri precedenti nel percorso intrecciato tra natura ed arte, dai codici miniati medioevali agli steli di Paul Klee, dagli alberi di Mondrian fino all’arte concettuale, che appunto utilizza concretamente elementi del mondo vegetale e minerale. I riferimenti sia botanici sia artistici aiutano certo a capire ma non bastano per percepire appieno dal versante creativo le opere di Ruth Moro. Oltre ai vari procedimenti come la raccolta, la scelta, la lavorazione dei vegetali adeguandosi ai ritmi della natura, alle stagioni sue e nostre, e al di là anche dalla componente filosofica che qualifica questo lavoro, emerge sì la consapevolezza di questo filone dell’arte ma soprattutto la capacità di esprimersi in modo originale e per certi aspetti anche nuovo. Ad esempio nella qualità di composizioni estremamente raffinate che tendono a divenire astratte, ma ancor più nel saper creare con elementi di natura immagini che hanno a che fare con i concetti di armonia e di bellezza. E che al tempo stesso sanno parlarci di noi, del nostro mondo anche interiore, della nostra condizione all’interno di quella grande casa comune che è la natura.
2019
Vito Calabretta
Ruth Moro dipinge con le piante. Sarà vero? Cosa vuole dire? È in parte vero perché l’artista utilizza elementi vegetali come materiale e anche come procedura.
Qui abbiamo un primo crocicchio interessante del lavoro proposto nel Museo di storia naturale di Lugano perché la relazione dell’artista con il mondo vegetale è, direi, piena: ella studia quel mondo, lo utilizza mettendo in atto un approccio che la fa penetrare all’interno di quel mondo, seleziona la realtà alla quale attinge con sapienza e a capo di questo percorso che è la sua vita di artista il mondo vegetale diventa sia lo strumento espressivo, sia l’area descrittiva e il campo concettuale. Il crocicchio consiste pertanto della frammistione di componenti strumentali e finali, come in ogni lavoro artistico: la materia utilizzata (il colore a olio o a tempera o acrilico o il pigmento, la pietra, il bronzo, la stampa…) è lo strumento espressivo e contemporaneamente l’area di azione e il campo semantico. Gli esempi sono innumerevoli: in Ticino abbiamo Paolo Foletti che prende un pigmento, lo stende su una superficie e tanto ci lavora fino a quando il colore ottenuto con il colore all’interno di quello specifico campo quadrato non gli dà soddisfazione.
Giungiamo così a un primo aspetto interessante perché il crocicchio nel quale agisce Ruth Moro evoca quello in cui agisce lo scienziato e in questo caso lo storico della natura: la realtà vegetale è la fonte alla quale si attinge per comprendere ed è anche l’area di azione e il territorio nel quale si esprime l’inferenza e quindi il sistema dei significati.
Le modalità di approccio al mondo vegetale, sui due fronti che troviamo nel Museo di Lugano, sono in effetti complementari. Dalla parte del museo abbiamo l’analisi del mondo vegetale al fine di ricostruirne la storia e delinearne il funzionamento, ripercorrere le linee di sviluppo e riconoscere le funzionalità: «la cellulosa: si tratta di una sostanza composta di lunghe e robuste catene di zucchero (glucosio) che costituisce la parete delle cellule vegetali e che, come un telaio, ne irrobustisce la struttura» (scrivono Brigitte Marazzi e Sofia Mangili a p. 11 del catalogo). Dalla parte dell’artista l’analisi segue un percorso apparentemente simile, finalizzato però ad una appropriazione più individuale ed espressiva, forzando pertanto con più decisione le fasi di azione. Vediamo così, per compensare la forza con la quale l’azione artistica si mette in atto, manifestarsi l’esigenza di uno spiccato rispetto morale nei confronti del mondo osservato e sfruttato; la leggiamo nelle parole di Ruth raccolte da Giancarlo Moro: «il rituale inizia con l’estate … le emozioni sono forti e la magia di questa alchimia … ti turba i sensi». Il rispetto, addirittura, assume una connotazione ulteriore e il termine “rituale” ci propone l’esistenza di una relazione che non è soltanto funzionale e che non risponde soltanto all’esigenza di svelare «qualcosa di nascosto, di segreto», ma, cercando come «si rivela l’anima del vegetale», stabilire con la realtà referente una relazione che trascende la dimensione simbolica verso quella religiosa e devozionale: «giocando con i segni che ogni vegetale invita a scoprire. Io, l’acqua e i vegetali operiamo insieme, alla ricerca di qualche cosa di nuovo, ancora latente».
Calato nella atmosfera del Museo di storia naturale, il lavoro di Ruth Moro mostra bene la delicatezza della relazione tra la dimensione devozionale e quella creativa e ci aiuta pertanto a leggere l’importanza e la articolazione di tale relazione. Da una parte infatti abbiamo il modo in cui l’artista si confronta con la realtà vegetale, quasi deferente nel voler rispettare e rendere omaggio a un universo nei confronti del quale gli esseri umani si comportano male. Dall’altra abbiamo l’esigenza espressiva che induce l’artista a sferzare la propria azione alla ricerca di una dimensione autonoma. Si tratta di un processo difficile come lo è il lavoro di ogni artista. Non ci sono condizioni prestabilite che ci aiutino o tantomeno ci garantiscano un risultato convincente. Tradizionalmente si dice che è poi il lavoro stesso, inteso come prodotto risultato dell’azione artistica (l’oggetto, dunque) a decidere e a dirci se abbiamo raggiunto qualcosa di convincente. In Attaccapanni di Luciano Fabro troviamo di ciò una definizione apodittica.
Un tributo del quale dobbiamo dunque essere grati a Ruth Moro è la chiarezza con la quale il suo procedimento esprime la delicatezza e la difficoltà di questa relazione e il contesto del Museo di Lugano aiuta tale chiarezza perché lo immerge nel mondo complementare della analisi e della ricostruzione il cui fine è l’inferenza e non l’espressione.
Per questi motivi tra gli oggetti presentati come lavori artistici (le carte su tavola) e le cosiddette «cotture» io vedo continuità e sono interessato agli esiti espressivi in entrambe le situazioni. La proposta di Lugano ci presenta uno spettro continuo nel quale troviamo un felce maschio raccolto a Ruvigliana e messo in erbario e la struttura metrica di Essere Idrangea o la disseminazione spaziale di Da punto a punto.
Se dunque è vero che Ruth Moro dipinge con le piante, nel senso precisato all’inizio di questo testo, è altresì vero che si tratta di una affermazione riduttiva allorquando l’azione dell’artista valorizza la complessità strutturale ed espressiva del mondo vegetale e la difficoltà che l’artista ha, sempre, nell’utilizzare una materia.
2018
Marco Franciolli
L’esposizione di una selezione ragionata di opere di Ruth Moro nelle sale del Museo cantonale di storia naturale fa sorgere interessanti spunti di riflessione sul rapporto fra processi creativi e metodo scientifico nella relazione fra arte e natura. L’artista elabora infatti un personalissimo “erbario”, inteso qui latu sensu, nel quale l’atto artistico si compie non imitando la natura, ma includendola quale elemento costitutivo dell’opera.
L’intensità del rapporto fra l’essere umano e il mondo naturale si è espressa nel tempo in tutta la sua ampiezza e varietà attraverso la raffigurazione delle forme naturali, animali e vegetali. In accordo con l’evoluzione del pensiero nelle varie epoche e le conseguenti mutazioni nella relazione con il mondo fenomenico, l’illustrazione del dato naturale è stata via via caratterizzata da una visione simbolico/interpretativa, spesso idealizzata, oppure da una raffigurazione più oggettiva e realistica, resa artisticamente secondo i principi della mimesis. L’uomo ha espresso la propria curiosità e meraviglia nei confronti delle forme della natura e il bisogno di approfondirne la conoscenza con altrettanta intensità nella pratica artistica - disegno, pittura, scultura – e attraverso i metodi e le pratiche della scienza.
Le carte e le tele di Ruth Moro si iscrivono in un lungo e affascinante percorso che dal codice miniato medievale conduce alle esperienze di ambito concettuale della seconda metà del XX secolo, allorquando gli elementi naturali – alberi, fiori, foglie, frutti, rocce – non vengono più resi in termini grafici o pittorici, ma entrano fisicamente negli spazi e nelle opere d’arte. Una breve disamina dell’evoluzione del rapporto fra arte e natura nel tempo, inevitabilmente parziale e soggettiva, può rivelarsi utile per accedere alla poetica di Ruth Moro.
Le illustrazioni di animali e piante del celeberrimo Codex Aniciae Julianae – il più antico codice miniato risalente al VI secolo, noto anche come Discoride di Vienna, e in particolare le raffigurazioni contenute nella parte relativa all’erbario nel Dioscorides Neapolitanus, custodito presso la Biblioteca Nazionale di Napoli, presentano un naturalismo caratteristico per disegni che avevano quale compito essenziale quello di descrivere la forma, l’ambiente naturale e le proprietà curative delle diverse piante. L’universo immaginario medievale si palesava negli erbari, sovente caratterizzati da illustrazioni frutto di fantasia e invenzione piuttosto che di un’osservazione diretta di piante e fiori. Un’evoluzione significativa nella rappresentazione degli elementi naturali si manifesta nel corso del Rinascimento grazie a un approccio più scientifico e oggettivo al dato naturale, alla ricerca di una resa più realistica nel disegno di piante e animali. Esemplari in tal senso i fogli di Leonardo o di Albrecht Dürer dedicati allo studio di animali e vegetali, straordinarie copie dal vero, frutto di un’osservazione meticolosa del dato reale.
Nel 1735 viene pubblicato il Systema Naturae di Carl von Linné, opera che propone una sistematizzazione della conoscenza attraverso la classificazione razionale del mondo animale, vegetale e minerale in accordo con un nuovo metodo di osservazione della natura di impronta illuminista. Questo modo nuovo di osservare e classificare la realtà si riflette nella modalità con la quale vengono raffigurate le varie specie, riprodotte con intenti puramente scientifici in illustrazioni che nell’accuratezza dei dettagli anticipano la verità delle immagini fotografiche.
Nel corso del XIX secolo, la fotografia rivela visioni inedite del mondo fenomenico e influisce profondamente sulle pratiche artistiche, stabilendo nuovi rapporti fra arte e scienza. La microfotografia rivela agli artisti sorprendenti strutture di piante e fiori, offrendo nuovi temi iconografici. È noto, ad esempio, come il rapporto fra il botanico Armand Clavaud e l’artista Odilon Redon , abbia permesso a quest’ultimo di inserire elementi derivati direttamente dalla botanica, dall’entomologia e dalla geologia nelle sue composizioni simboliste.
Le importanti scoperte scientifiche e tecnologiche che caratterizzano il trentennio della seconda rivoluzione industriale, tra il 1870 e il 1900, influiscono profondamente su molti aspetti della vita e del modo di osservare il mondo, ma riverberano anche in modo determinante nelle rivoluzioni linguistiche che segnano l’arte nel passaggio verso il novecento. Nei primissimi anni del XX secolo l’arte occidentale si affranca dall’ossessione per la forma, il contenuto espressivo si emancipa dall’oggetto della rappresentazione: colore, segno e materia assurgono a mezzi espressivi autonomi. Il rapporto con la natura non si manifesta più tramite la rappresentazione di una realtà fisica indipendente, ma piuttosto attraverso un approccio incentrato sull’esperienza sensibile. Per Paul Klee “l’artista è egli stesso parte della natura” e deve saper cogliere “la voce della natura”. In una poesia del 1914, l’artista offre una illuminante chiave di lettura del processo creativo: “La creazione vive come genesi sotto la superficie visibile dell’opera. A ritroso la vedono tutti i talenti, avanti – nel futuro – solamente gli artisti. Nuove e straordinarie opportunità si schiudono nella relazione fra arte e natura grazie al superamento di ogni accademismo; per Piet Mondrian, maestro del neoplasticismo, lo scopo dell’arte è di riuscire a tradurre in un linguaggio figurativo la verità della natura. In una lettera indirizzata nel 1914 a Hans-Peter Bremmer, citata spesso per la sua grande pregnanza, Mondrian esprime in modo compiuto i principi della sua pittura: “Costruisco combinazioni di linee e di colori su una superficie piatta, in modo da esprimere una bellezza generale con una somma coscienza. La Natura (o ciò che ne vedo) mi ispira, mi mette, come ogni altro pittore, in uno stato emozionale che mi provoca un'urgenza di fare qualcosa, ma voglio arrivare più vicino possibile alla verità e astrarre ogni cosa da essa, fino a che non raggiungo le fondamenta (anche se solo le fondamenta esteriori!) delle cose... Credo sia possibile che, attraverso linee orizzontali e verticali costruite con coscienza, ma non con calcolo, guidate da un'alta intuizione, e portate all'armonia e al ritmo, queste forme basilari di bellezza, aiutate se necessario da altre linee o curve, possano divenire un'opera d'arte, così forte quanto vera.” Mondrian ha realizzato numerosi disegni e dipinti di alberi, che documentano quanto il suo intenso percorso creativo, teso a raggiungere una progressiva sintesi delle forme, sia incentrato sullo studio approfondito della natura. Come si evince con chiarezza nella lettera di Mondrian, l’astrazione nelle sue opere è frutto dell’osservazione delle forme basilari di bellezza della natura.
Nel 1928 viene pubblicato in Germania Urformen der Kunst di Karl Blossfeldt , autentico inno alla bellezza della natura. Il volume fotografico riprende la tipologia degli erbari e presenta 120 tavole in bianco e nero di fiori e piante con l’indicazione latina del nome, seguita dalla denominazione comune in tedesco. L’oggettività della ripresa fotografica, realizzata con un apparecchio modificato da Blossfeldt stesso per ottenere delle macrofotografie ingrandite fino a trenta volte, conferisce un aspetto monumentale e scultoreo alle forme vegetali. Le meravigliose forme archetipe della natura in Urfomen der Kunst rivelano i rimandi profondi fra la botanica, l’arte e l’architettura; non sorprende che fin dalla sua pubblicazione il libro di Blossfeldt sia stato apprezzato e utilizzato dagli artisti quale fonte d’ispirazione alla quale attingere e ancora oggi questo singolare erbario fotografico mantenga tutta la sua valenza estetica nell’ambito dell’arte contemporanea.
Nella seconda metà degli anni sessanta del secolo scorso si manifesta a livello internazionale una radicale rimessa in discussione delle pratiche artistiche e della funzione dell’arte attraverso il movimento – in realtà assai eterogeneo – dell’arte concettuale, un orientamento estetico che comporta, fra altre conseguenze, anche quella di ridefinire le fondamenta stesse del rapporto arte-natura. Nella sua accezione più ampia, l’arte concettuale privilegia la dimensione mentale dell’arte ed è incentrata su una ricerca intellettuale che attinge alla linguistica strutturale, alla filosofia Zen, ma che si declina sincronicamente in molteplici esperienze artistiche quali l’arte comportamentale, l’arte minimal, la land art o l’arte povera. Attraverso la land art, l’arte esce dai luoghi deputati dell’arte, musei e gallerie, per confrontarsi con gli spazi della natura: deserti, montagne, fiumi, mari, l’ambiente naturale diventa lo spazio nel quale opere spesso monumentali propongono inedite esperienze percettive. Allo stesso tempo, la natura entra fisicamente nei luoghi dell’arte: fiori, piante, polline, erba, cera, sassi, acqua, riso, materiali fino ad allora estranei alla pratica artistica divengono elementi costitutivi dell’opera. I concetti e i processi creativi più significativi di questa stagione artistica furono presentati in un allestimento di Harald Szeemann alla Kunsthalle di Berna dal titolo When Attitudes Become Forms (1969), una mostra divenuta rapidamente un punto di riferimento imprescindibile per le pratiche artistiche contemporanee che ha segnato anche un definitivo momento di snodo per un rinnovato sentimento della natura nell’arte.
Il discorso artistico di Ruth Moro si colloca nel superamento delle istanze concettuali che hanno segnato la fine del secolo scorso, infatti a prevalere nelle sue opere è indubbiamente la dimensione pittorica su quella mentale. Eppure, il rigore nella strategia adottata dall’artista nella realizzazione delle proprie opere rimanda a processi creativi fra i più marcanti dell’arte attuale che hanno avuto origine in ambito concettuale.
A partire dall’iniziale interesse per i procedimenti della realizzazione della carta con le fibre vegetali e le tecniche di produzione artigianale della carta giapponese washi, l’artista ha sviluppato una propria procedura per ottenere la materia prima essenziale per la propria arte: la nervatura di brattee, follicoli e samare.
Il primo atto nella realizzazione delle opere di Ruth Moro è la raccolta dei vegetali; in questa fase preliminare l’artista deve sintonizzare la propria attività con il tempo ciclico delle stagioni, deve identificare cioè il momento più propizio per raggiungere il miglior risultato. Il fattore tempo – quello del raccolto, della complessa e faticosa lavorazione per ottenere la struttura del vegetale con la sua cellulosa e del successivo minuzioso assemblaggio delle strutture – è parte integrante della poetica di Ruth Moro. Accordare i tempi dell’arte con i ritmi della natura comporta una componente filosofica e/o spirituale nell’atto creativo; l’attenzione al tempo, quello biologico e quello mentale, si accompagna sovente nell’ambito dell’arte attuale rivolta all’ambiente naturale anche con il recupero del valore del fare. Esemplare in tal senso l’opera di Giuseppe Penone, eminente artista dell’arte povera che incentra la propria scultura sul rapporto arte natura. Nella realizzazione di alcune opere, l’artista scava tronchi di grandi dimensioni per far emergere la forma di una fase iniziale della crescita della pianta, evocando così l’idea michelangiolesca di rimuovere la materia che nasconde la forma, un procedimento affine a quello praticato da Ruth Moro nella rimozione delle parti molli per rivelare la struttura interna dei vegetali.
Ruth Moro elabora le proprie opere in cicli tematici riconducibili alle specifiche piante: Equisetum telmateia, Hydrangea quercifolia, Firmania simplex, Tilia, Acer, ogni vegetale possiede una singolare struttura che l’artista evidenzia assemblando i singoli elementi in modo da ottenere le trame e i ritmi caratteristici delle sua opera pittorica. L’artista ha sperimentato nel tempo vari supporti, alla ricerca di un equilibrio fra le proprietà specifiche di resistenza e trasparenza dei fogli ottenuti assemblando le strutture vegetali e la resa in termini cromatici e pittorici delle pagine montate su tela o su tavola. La perizia acquisita nella tecnica realizzativa consente all’artista una grande libertà nell’uso di un mezzo espressivo assai inusuale, capace di esprimere tutta l’armonia e la bellezza insite nelle forme naturali. Il peculiare erbario di Ruth Moro rivela quanto le microscopiche strutture vegetali presentino sorprendenti analogie con le forme dell’arte: una carta di Acer platanoides sbiancato presenta segni che rimandano alla figurazione di Klee, la Firmiana simplex nel dittico “Sfogliando il verde I e II” richiama le diafane ali di libellula di un vaso di Gallé mentre altre carte sono caratterizzate da strutture vorticose che richiamano alla memoria il dripping di Pollock.
Nel ciclo di lavori dedicato all’Hydrangea quercifolia si manifesta per contro in modo evidente la natura frattale delle opere, un carattere che rimanda alla matematica quale principio fondante dell’armonia e della bellezza della natura.
Nella mostra si palesa il profondo interesse dell’artista per le meraviglie della natura, celebrate in una proposta artistica singolare nella quale arte e botanica si incontrano. Ruth Moro rinnova l’idea dell’erbario intrecciando un approccio scientifico con una pratica artistica raffinata e di grande sensibilità; nel contesto espositivo del Museo cantonale di storia naturale, la dimensione contemplativa delle sue opere schiude inediti e affascinanti percorsi di lettura.
2013
Marcella Snider Salazar, Dal vegetale all’opera d’arte - incontro con Ruth Moro
A Cavigliano, nel nucleo a ridosso dell’antico torchio comunale, si erge un edificio costruito da una decina di anni, in cui trovano spazio gli atelier di Ruth e Giancarlo Moro.
Ruth elabora le sue “carte” nel laboratorio al piano terreno e nello studio al primo piano, mentre Giancarlo dipinge nel locale del livello superiore. Da qui si accede direttamente al giardino della loro bella abitazione, che chiude la proprietà un po’ più su verso montagna, lambendo via Modino. Il breve percorso tra la casa e gli atelier, che attraversa l’orto e affianca degli ulivi, è un passaggio rituale per i due artisti che lasciano quotidianamente alle spalle la vita in comune per concentrarsi ciascuno nel proprio lavoro.
Oggi è Ruth che ci accoglie per parlarci delle sue “carte”. La carta non come supporto per scrivere o disegnare, ma tema, contenuto e forma; una carta fatta a mano che diventa elemento plastico, pittura, oggetto artistico. Nei cataloghi delle numerose esposizioni che l’artista di Cavilgiano ha tenuto all’estero e in Svizzera è lei stessa a definirsi attiva nell’ambito della paper art. Alla base della sua opera c’è infatti la tecnica antichissima della fabbricazione della carta, ottenuta da materie fibrose vegetali.
La sua ricerca inizia in realtà fuori dall’atelier, nell’andare a scovare la materia prima del suo lavoro, ciò che la può portare anche lontana. In Giappone, per esempio, dove nel 1995 ricevette il Premio Excellent Award nell’ambito di una importante mostra internazionale, scoprì i follicoli del frutto della firmiana simplex, di cui alle isole di Brissago c’era un esemplare, purtroppo morto, per cui dovette spostarsi fino a Padova, poi a Firenze fino a trovare la disponibilità del Giardino botanico dell’ Università La Sapienza di Roma, dove regolarmente una volta all’anno si è recata per raccogliere i frutti. Il dialogo di Ruth Moro con la natura passa attraverso queste avventure per proseguire nel minuzioso lavoro di preparazione dei vegetali.
Agli inizi della sua ricerca, nella seconda metà degli anni ottanta, Ruth Moro esaminò più di cento piante per captarne le specificità strutturali. In questo primo periodo si serviva per fare la carta soprattutto dell’antica tecnica nepalese¹. Un catalogo con i risultati ottenuti da tutti questi vegetali è conservato nel suo atelier come un affascinante “erbario” in cui, foglio per foglio, in ordine alfabetico (acacia, alghe, allium cepa...), scopriamo nella naturale trasparenza della carta le diverse caratteristiche filigrane.
Con quasi tutti i vegetali si può fare carta, spiega Ruth Moro e continua raccontando della forza di ciascuna pianta e delle loro geometrie segrete che intende col suo lavoro svelare: “Una scoperta di ciò che è nascosto, di ciò che non è evidente a prima vista, ma che sovente mi si presenta poi d’un tratto come l’elemento ‘originale’, l’anima di una pianta”. E’ con trasporto che parla per esempio dell’equiseto, che raccoglie anno dopo anno nella regione di Lucerna: “una pianta antichissima, quasi un fossile vivente, che racchiude in sé e nelle sue strutture l’insieme di movimenti tettonici di vegetali cresciuti milioni di anni fa”.
Con gli anni novanta, Ruth Moro ha iniziato a elaborare la materia costruendo le sue carte direttamente sul telaio, così da modellare dei percorsi più personali. I fogli erano presentati sospesi come bozzoli all’interno di una cassettina in plexiglas, per renderne più evidente la struttura attraverso la trasparenza. In seguito ha cominciato ad applicare i fogli su tela e quindi su tavola, infine a ricoprirli di sottili strati di colore, così che assunsero un’identità maggiormente pittorica.
Il viaggio nel regno delle piante porta Ruth Moro oltre il visibile, a trasformare la materia prima lasciandosi guidare solo dalla propria sensibilità. “L’arte è l’immaginazione allegorica della creazione”– sosteneva Paul Klee - possibilità di cogliere i frammenti impercettibili dell’universo per comporli e ordinarli “nel senso di una libertà che rivendica il diritto di essere mobile come lo è la grande natura”. Il dialogo con gli steli dell’equiseto ha prodotto così le trame di nuove opere, come dall’incontro con le eliche del seme dell’acero (le samare), raccolte nella nostra regione, sono nate altre composizioni, dove i residui di questi elementi naturali traspaiono quali fossero delicate impronte d’uccelli sulla neve. La danza dei segni vegetali anima sempre tutta la superficie dei quadri di Ruth Moro, ne formano la vibrante tessitura basata su geometrie misteriose, sull’equilibrio e l’armonia, come la calligrafia nelle liriche orientali, che crea ritmi musicali. Il ruolo sensibile dato al colore evoca rafforzandolo il legame con il referente naturale primordiale. Sono strati leggerissimi di ocra, bruni, verdi o azzurri in tonalità trattenute. Le raffinate composizioni si susseguono in variazioni su un tema, così come la natura che crea e si sviluppa, sprigionando risonanze. A volte l’artista presenta più quadri accostati per suscitare nuove relazioni, tensioni e contrapposizioni. Nella serie di dittici intitolata “Pagine romane”, per esempio, alla quale il Museo cantonale d’arte dedicò una mostra nel 2011, si è cimentata con il concetto stesso di coppia, indagando il dialogo tra i contrasti e le diversità, l’armonia, la complementarietà.
Ruth Moro è in continua ricerca, mai si adagia sui risultati riconosciuti, pronta a cogliere nuove sfide. Da un paio d’anni si è messa alle prese con la resina sintetica, con la quale copre le sue composizioni, smorzandone materia e colore in più oniriche visioni. Il giardino che coltiva giorno dopo giorno con il sentimento di ricreare il volto misterioso della natura non finirà sicuramente qui di stupirci.
Dopo l’appuntamento alla Galleria Carlo Mazzi di Tegna nell’aprile dell’anno scorso, una prossima esposizione la chiamerà in Francia quest’estate, ad Aix-en- Provence, dove porterà le “Pagine romane” nell’ambito del progetto “Papiers du Monde - Paper Art” presso la Galerie Franck Marcelin e il Musée d’Histoire naturelle.
¹ La tecnica nepalese, contrariamente a quella occidentale, dove con un telaio si pesca la materia nell’acqua, consiste nell’uso di un telaio galleggiante che immerso nell’acqua e dotato di una retina molto fine, permette di trattenere la fibra distribuita nel suo interno. Il foglio che nasce può essere lasciato ad asciugare direttamente sul telaio stesso, oppure come nella tecnica usata da Ruth Moro, depositato delicatamente su un panno, per poi essere torchiato ed asciugato. La cellulosa che si è sprigionata dalle fibre agisce da legante naturale, senza nessuna aggiunta di colla.
2012
Maria Will, catalogo Galleria Mazzi
Adesso, che il cammino nell’arte di Ruth Moro si può abbracciare con sguardo d’insieme lungo i serrati vent’anni scarsi da che si viene sviluppando, netto se ne ricava il senso di una ricerca sostenuta da non comune determinazione e rigore.
Un arco di tempo e di lavoro scandito da momenti di bilancio coincidenti con meditate presentazioni al pubblico, quali la recente mostra presso il Museo cantonale d’arte a Lugano, e le relative puntualizzazioni critiche affidate a piccole, preziose, monografie. Nella tesa traiettoria disegnata dall’artista (arte della carta la sua? o piuttosto pittura? o Ruth Moro non è invece approdata nel corso dei suoi esercizi ad una sorta di delicatissimo bassorilievo?) si segue, non senza ammirato stupore, l’affermarsi di una personalità creatrice capace di misurarsi senza equivoci né compromessi con le ragioni della manualità. Fatto, questo, che vale ad inserirla nel vasto novero degli interpreti del figurativo contemporaneo che su di una base di artigiana sapienza innestano l’espressione della massima libertà inventiva (si pensi al campo della ceramica, ad esempio; oppure a quello del tessile in genere). Che spesso si debba a donne tali scoperte di nuove risorse per l’arte – risorse al tempo stesso concrete e sospinte da forza ideale – andrà, se non altro, constatato.
Adesso, soprattutto, emerge infatti l’alto grado di autonomia linguistica perseguito da Ruth Moro, al di là del procedimento tecnico e della materia adottata; benché questi fattori rimangono nel suo lavoro di importanza fondamentale, sia per il riverbero con cui illuminano il momento più propriamente creativo, sia per l’intimo legame che si stabilisce tra la materia di cui l’opera consiste e il significato intrinseco dell’opera medesima, e sia, infine, per l’intransigente osservanza che l’artista mette nell’aspetto esecutivo. La piena percezione dell’entità dello sforzo compiuto da Ruth Moro viene dalla constatazione di come questa autonomia si affermi in primo luogo nei confronti della matrice che ha determinato lo stesso sorgere della volontà espressiva in quest’artista, vale a dire nei confronti della natura. Se è vero infatti che le composizioni di Ruth Moro poggiano sulla natura fino al punto da inglobarne parti di essa – elementi vegetali opportunamente e lungamente trattati – è vero anche che il processo di astrazione messo in atto è talmente conseguente e radicale da condurre al totale superamento del dato di natura iniziale.
La lezione di bellezza di cui il creato è fonte e che si manifesta perfino nel disegno nascosto della nervatura di un’umile brattea, l’inesauribile meraviglia che da essa deriva – o, se vogliamo – una qualsivoglia ‘religione’ della natura non sono il centro dell’opera di Ruth Moro ma vi sono sostituite semmai dalla ‘religione’ dell’arte, intesa come dedizione ad un sistema di segni che permette di accedere alla purezza dell’esperienza visiva, sfiorando la rivelazione del suo segreto ultimo.
Ritmo, equilibrio, ordine, iterazione, regolarità – ma anche variazione nella regolarità – sono i principi attorno a cui prendono forma le immagini di Ruth Moro; e uno dei non minori pregi del suo lavoro è quello di essere stato portato tanto distante dalla decorazione restandone tuttavia tanto aderente. Meglio: uno dei risultati più preziosi della ricerca di Ruth Moro consiste nell’indicare la pienezza di significato, la risonanza interiore che la decorazione sa liberare in virtù della sua sostanza, che non è ornamento superfluo ma bisogno, invece, profondamente radicato nell’uomo.
E allora, infinite possibilità si aprono: il silenzio e la musica, la serenità e il dramma, la suggestione naturalistica e l’astrazione più severa che a volte appaiono persino riunite in una medesima composizione. Ruth Moro plasma le sue tavole, preziose di un colore inedito e raffinatissimo, come raffinate ma mai gratuite né leziose sono le texture che allinea in una campionatura vastissima. Quando assembla più unità fra loro, a dittico o altro, asseconda forze in potenza e stabilisce relazioni sorprendenti, armoniose ma non appagate, anzi dinamiche e magnetiche allo sguardo.
Nella sua tensione di rifondazione e di acutizzazione della visione attraverso la sintesi e la purificazione del segno Ruth Moro trova un’eletta corrispondenza con un altro ricercatore di accordi visivi, con Giancarlo Moro, suo marito, pittore di ineffabili speculazioni. Analogie di struttura, difformità di risoluzione dello spazio – nell’uno divergente, nell’altra convergente – dicono tuttavia insieme di una confluenza di sensibilità e di estetiche che caratterizza e forma una coppia nella vita che è bello poter conoscere e una coppia nell’arte la cui reciproca necessità si risolve in reciproca indipendenza.
2011
Peter Killer
Che Ruth Moro sia una pittrice è una constatazione che molti fanno dopo aver osservato anche solo per un breve momento le sue opere. Ma si tratta di un errore. Il processo creativo di queste opere è così lungo, complesso e articolato in molte fasi, che sarebbe meglio parlare di un’artista concettuale impegnata in processi che portano a un risultato pittorico.
Per quanto mi riguarda, considero gli artisti alla stessa stregua dei protagonisti dell’arte circense. Non voglio sapere per quanto tempo si siano esercitati, quali difficoltà e, con quale sforzo, le abbiano superate per mostrarci qualcosa di mai visto. Nelle arti visive è importante unicamente ciò che alla fine è reso visibile. Per me è indifferente se uno scolpisce il legno di tiglio o quello duro e resistente di rovere, se lavora con l’arenaria oppure con il granito, ciò che conta in ultima analisi sono forma e messaggio.
E cosa appare evidente nei dittici di Ruth Moro? Che quest’artista crea immagini meravigliosamente silenziose e meditative. Con questo è già stata detta la cosa più importante.
Un silenzio costruito, che si contrappone alla nostra epoca rumorosa e estroversa. Non conosco cifre statistiche che indichino chi, dove e quando si aggiri con gli auricolari dell’iPod infilati nelle orecchie oppure con delle cuffiette in testa. Centinaia di migliaia, milioni di esseri umani nel mondo occidentale sembrano non sopportare più il silenzio e sono sottoposti a un inquinamento fonico permanente. Silenzio e calma appaiono qualità che diventano sempre più sospette.
Altre persone, ad esempio Ruth Moro - pur così vitale e attiva - percepiscono il silenzio come una condizione di benessere. Con le sue immagini silenziose l’artista ci fa dei doni rari e preziosi. Esiste infatti, oltre al silenzio che il nostro cervello percepisce attraverso l’udito, un silenzio visivo. Che le immagini abbiano un suono non lo sanno solo i sinesteti. “Adesso canta” dicono pittrici e pittori, quando i colori sono ben disposti. I sinesteti di fronte ad uno stimolo sensoriale hanno due o più percezioni. Ad esempio sono in grado, sentendo dei rumori, di vedere forme e colori, mentre le immagini diventano per loro melodie e accordi, che possono risuonare in modo rumoroso o sommesso. Presumo che i sinesteti di fronte ai quadri di Ruth Moro sentano una musica lieve, elegiaca, magari suonata da flauti e violini.
Quotidianamente ricevo attraverso Internet inviti di esposizioni da tutto il mondo e se ho tempo li guardo. Quasi sempre sono molto attrattivi. I webmaster sanno molto bene che solo ciò che è gridato attira l’attenzione; che solo ciò che sorprende, o che addirittura sciocca, cattura lo sguardo. Chi vuole avere un ruolo all’interno di una scena artistica in cui accade molto più di quello che è possibile percepire, in cui l’offerta è più grande della domanda, deve farsi venire molte idee. Al contrario, Ruth Moro si riconosce in ciò che non è spettacolare, fiduciosa che esistano ancora amiche e amici dell’arte che abbiano la capacità di reagire anche di fronte a ciò che è raffinato.
Posso volgere il mio sguardo all’indietro su quasi quarant’anni di attività nell’ambito dell’arte contemporanea. Durante questo periodo l’arte si è modificata quasi quanto la società. Un paragone tra l’ieri e l’oggi, nella sua generalizzazione, sarebbe improprio, ma mi permetto di proporlo comunque. Un tempo c’erano artisti che creavano un’opera in tutta tranquillità (o meglio : la lasciavano crescere), in modo caparbio, ostinato, seguendo le proprie idee, con il rischio di sbagliare, seguendo un cammino solitario. Questi artisti - oggigiorno diventati rari - hanno forgiato il mio modo di intendere l’arte. Non so se esista un modo oggettivo e corretto di intendere l’arte e non so se il mio sia quello giusto, ma è quello che va bene a me. Per questo condivido la convinzione di Ludwig Hohl: “Nell’arte non esiste nessuna interiorità e nessuna esteriorità. Dove c’è arte l’interiorità è esteriorizzata.”
E nell’interiorità regna quasi sempre il silenzio. Quando l’interiorità si volge, in forma di opera d’arte, all’esterno, diventando percepibile agli altri, il silenzio può essere parte di essa. È ciò che provo di fronte ai lavori di Ruth Moro. La maggior parte delle sue Pagine romane sono dittici che visti da lontano trasmettono un doppio suono.Tuttavia se li osserviamo da vicino il “singolo suono” è orchestrato in modo ricco e variato. Musiche da camera in due movimenti? Notturni in due parti? Piccole sinfonie vesperali?
La maggior parte dei dittici sono composti da due quadrati di formato medio che si differenziano tra di loro non solo per il colore, ma anche per la griglia o il reticolo delle strutture. Le texture a maglia larga presenti in questi dittici dialogano con quelle a maglia fine, che possono dissolver- si fino al punto da ricordare le astrazioni liriche di Mark Tobey.
L’artista utilizza di preferenza un formato di 40×40 cm, ma la loro dimensione relativamente piccola viene annullata dall’uso dell’all-over. Come tanti espressionisti astratti ed esponenti della pittura colorfield, opera coprendo tutta la superficie in modo che l’occhio lo faccia crescere, dilatando il quadro oltre i suoi stessi bordi.
Ruth Moro crea una tensione contrappuntistica attraverso i contrasti delle strutture, delle trame, dei colori, dei chiari e scuri. Cromaticamente preferisce i colori autunnali a quelli primaverili ed estivi. Sono i momenti tranquilli delle stagioni e delle giornate che si riflettono nelle sue opere, nelle quali molto spesso utilizza il verde. Nel 1911 Robert Walser scriveva: “In primavera il mondo è un incendio di verde. Il verde è una furia di colore. Si allunga verso l’alto, si estende in lunghezza. Non si è più un essere umano. Non si sa più, cosa e chi si è. S’infuria, è in collera, trabocca, divampa. Il verde è un colore spaventosamente serio, un colore santo. Un colore orribile, un colore che ammonisce e che interroga, un colore divino.”
Il verde di Walser potremmo definirlo verde-giallo, giallo-zolfo, turchese, blu marino o verde mela. Ruth Moro si attiene invece al verde patina, verde smeraldo, verde muschio, verde oliva, verde felce, verde opale. I suoi verdi smorzati sono lontani dal furore, non si inalberano, non sono in collera, non divampano, non ammoniscono, non pongono domande. I suoi colori hanno la naturalezza dell’agire della natura.
In precedenza ho detto che non sono interessato al processo artigianale che porta alla realizzazione di un quadro. Tuttavia un breve commento sul nascere di queste opere è ineludibile, poiché concerne la loro apparenza e spiega parzialmente la loro forma visibile.
Le opere di Ruth Moro esposte in questa occasione sono dei microrilievi realizzati con i follicoli di una pianta cinese: l’albero dei parasoli o Firmiana simplex. Questi lavori si inseriscono in modo conseguente in un processo che era iniziato vent’anni fa con la produzione manuale di carta vegetale. Da tempo però la semplice creazione di carta non le bastava più. Il materiale raccolto le appare troppo bello, troppo meraviglioso per trasformarlo in polpa. Come in passato ad interessarla sono soprattutto quattro piante o alberi: l’equiseto, l’acero (di cui usa le samare) il tiglio e appunto la Firmiana simplex.
Su uno degli elementi dei suoi dittici (normalmente su quello di sinistra, raramente su entrambi) sono facilmente riconoscibili i follicoli della Firmiana simplex, sovrapposti accuratamente in modo da creare delle carte vegetali che vengono successivamente trasposte su tela. Sull’altro elemento del dittico la struttura è quasi sempre ritmata più finemente, ma anche in questo caso l’uso degli stessi elementi vegetali e di un identico procedimento di lavoro da vita a una trama. Nel giardino del suo atelier a Cavigliano, vicino a Locarno, Ruth Moro cuoce le piante in una soluzione a base di soda caustica, le risciacqua, le sbianca, le risciacqua ancora. Poi tinge i vegetali e li dispone in finissime composizioni che vengono pressate, poi trasposte su un supporto e infine ricoperte da una pellicola di diversi strati di colore - il tutto in accordo alla massima di Goethe: “Blumen reicht die Natur, es windet die Kunst sie zum Kranze” (Fiori porge la natura, le attorciglia l’arte in ghirlande).
L’albero dei parasoli Ruth Moro lo ha visto per la prima volta nel 1995, quando si trovava in Giappone per ricevere il premio dell’”Imadate Exhibition of Paper Art ’95”. “A Kyoto ho scoperto per caso quest’albero. Sono stata immediatamente attratta dai suoi grandi follicoli e ne ho raccolto subito una grande quantità, per poter compiere delle sperimentazioni una volta a casa. Siccome questo nuovo materiale non mi dava tregua, ho dovuto cercarlo altrove. Negli ultimi cinque anni ho potuto così raccogliere i follicoli della Firmiana simplex all’Orto Botanico dell’Università La Sapienza di Roma, dove ho trovato persone che con il loro impegno sono state di grande sostegno per il mio lavoro.”
Non a caso questi quadri si intitolano Pagine romane, perché senza i follicoli della Firmiana simplex di Roma non avrebbero potuto nascere.
Ruth Moro oltrepassa i confini. Molti dei suoi quadri hanno qualcosa in comune con la tradizione ormai quasi centenaria della pittura monocroma. Quando utilizza materiali vegetali frammentati finemente, le sue tavole appaiono come opere appartenenti alla tradizione dell’astrazione non oggettiva. Ma come si possono definire non oggettive delle opere d’arte, in cui i follicoli della Firmiana simplex, ossia degli elementi oggettivi, svolgono un ruolo centrale?
Più che alla pittura monocroma, dal mio punto di vista, Ruth Moro si situa vicino ad artisti quali Wolfgang Laib, che crea opere d’arte partendo da materiali come polline, latte e riso. Opere d’arte, che sono guidate da un amore profondo per la natura.
Trduzione Elio Schenini
2011
Marco Franciolli, direttore-conservatore Museo Cantonale d’Arte Lugano
L’ossessione per l’imitazione della forma naturale ha prodotto innumerevoli capolavori nell’arte occidentale: nature morte, vanitas, paesaggi, fronde, alberi, fiori, foglie, gli artisti non hanno mai smesso di trovare nella forma vegetale una fonte inesauribile di ispirazione.
Dall’elaborazione simbolica al realismo più ossessivo, dall’astrazione più radicale all’evocazione poetica, i linguaggi dell’arte sembrano aver sondato ogni possibilità per esprimere il legame primario dell’uomo con la natura. Eppure, la pittura può ancora sorprendentemente rivelare inedite modalità per manifestare tale sentimento, come dimostrano i dipinti di Ruth Moro.
L’artista non guarda alla natura per imitarla, ma se ne appropria letteralmente, trasformando foglie o frutti in materia primaria per i suoi dipinti. Attraverso un lungo e complesso processo di lavorazione, Ruth Moro elimina le parti molli delle foglie per svelarne la nervatura interna, anima o scheletro che assume valenze semantiche e strutturali nell’opera pittorica. Unite fra loro, le strutture vegetali formano un foglio che diviene la base per la realizzazione delle sue opere.
In una fase precedente del suo percorso artistico, i fogli erano sospesi all’interno di una cassetta in plexiglas, una modalità di presentazione tesa a valorizzarne la struttura attraverso la trasparenza. L’effetto prodotto da queste pagine diafane, che evocavano impalpabili ali di insetti, era straniante. La struttura vegetale, analogamente a quanto avviene per le microfotografie della botanica, risultava al contempo riconoscibile e misteriosa. Effettivamente, nel processo artistico di Ruth Moro si attua una sorta di macrovisione delle strutture delle foglie, che ne rivela la struttura segreta. Ogni pianta ha una sua singolare e inconfondibile caratteristica, che l’artista sa interpretare e mettere in valore.
Successivamente, Ruth Moro ha iniziato a montare i fogli di carta su una tela tesa su telaio oppure su tavola - i supporti della tradizione pittorica occidentale - intervenendo a livello cromatico con tonalità a volte tenui e delicate, a volte più decise e corpose che tendono ad evidenziare o a stemperare la struttura vegetale delle foglie. Inevitabile, affiora il rimando alla cultura visiva orientale, ma questo è da ricondurre ad una sottesa dimensione contemplativa della natura, all’uso particolare della carta e al ricorrere dell’elemento vegetale piuttosto che alla presenza di elementi stilistici orientali.
Il lemma Folium designa la foglia, il petalo, il foglio di carta e pare indicare le fasi stesse del procedere di Ruth Moro: dalla foglia, al foglio, al dipinto. Il gruppo di opere presentato in questo catalogo, pubblicato in occasione della mostra al Museo Cantonale d’Arte, ha per titolo Pagine romane. Il ciclo, realizzato a partire dal 2006 con l’ausilio di frutti della Firmiana simplex, si compone di dittici, una scelta formale che innesta un ulteriore elemento significante nell’opera. Dopo aver plasmato la materia vegetale, operazione lunga e complessa volta ad ottenere dalla natura la materia prima per la sua pittura, Ruth Moro si confronta, su un piano prettamente pittorico, con il tema del doppio e della coppia. La giustapposizione delle strutture e dei colori, che occupano l’intera superficie dei singoli moduli fino ai bordi, genera contrappunti e armonie, lasciando intuire la ricerca di un punto ideale di dialogo, finalizzato all’unità delle parti in accordo o in tensione.
Il rigore e la profondità della ricerca di Ruth Moro permettono di eludere ogni cedimento decorativo, la sensuale bellezza dei dipinti esprime negli accordi cromatici e nell’accostamento delle strutture segniche un raffinato equilibrio. L’osservatore è invitato ad immergersi in una dimensione contemplativa, dove l’esperienza dell’arte e della natura, finalmente, si fondono.
2007
Diana Bettoni
Gli studi condotti da Ruth Moro, classe 1944, nell’ambito dell’ergoterapia ne hanno forse indirizzato il particolare percorso artistico, caratterizzato da un lungo processo di lavoro meditativo e preparatorio, in cui l’opera d’arte è sorpresa in fieri.
Quella linea sottile che separa l’artigianato dall’arte viene delicatamente annullata dalla mano paziente dell’artista che mentre prepara la materia, ne modifica l’essenza naturalistica, ponendosi tra il naturale processo di decomposizione delle strutture vegetali e la sublimazione dell’arte. La produzione raffinata delle carte di Ruth Moro è depositaria di antichi valori, nei quali risiede il principio lavoisieriano della conservazione della materia: "in natura, nulla si crea e nulla si distrugge, ma tutto si trasforma”. La scelta, la raccolta, la macerazione, la cottura e la purificazione della materia prima vegetale, la sua colorazione, feltrazione ed essiccazione a formare la charta, non porta nel lavoro di Ruth Moro alla creazione di un supporto sul quale intervenire in un secondo momento per realizzare l’opera, ma il risultato di questo processo di preparazione è già l’opera d’arte in sé, compiuta e autonoma, al contempo dipinto, incisione e scultura intrisa dei segni svelati della natura. Un lavoro meticoloso e paziente che l’artista elabora nell’intimità del proprio atelier di Cavigliano avvalorandolo con lo strumento dell’espressività artistica. Sceglie le forme semplici offerte dalla natura (foglie, steli, frutti o petali), le compone secondo strutture essenziali che sanno svelare vaste dimensioni percettive, in una preziosa dialettica tra idea, concetto ed elemento naturale. Ne scaturiscono opere dall’inaspettato effetto compositivo, in cui la struttura vegetale in trasparenza determina la forma iterante che la mano dell’artista saprà orchestrare in un insieme armonico di poesia e colore. Ogni foglio racconta la propria storia, sempre nuova, sempre originale, attraverso un linguaggio segnico intrinseco alla materia, modulato dall’artista secondo il proprio intimo sentire: nel processo di trasformazione dall’elemento vegetale all’opera d’arte si insinua l’abilità dell’artigiana e la sensibilità dell’artista, che sa cogliere nel naturalismo della materia il potenziale astrattivo della composizione. Ritmi cadenzati da fragili nervature, strutture velate da cromie delicate, e poi, soprattutto nei suoi ultimi lavori, l’intervento più deciso del pennello, che segue le tracce della charta, quasi a sovrapporre l’intima melodia cromatica di Ruth Moro al suono scolpito nella natura, in una concertazione artistica in sintonia con l’universo.
2005
Jean-Michel Gard, direttore del Manoir de la Ville de Martigny
Dopo Claude e Andrée Frossard nel 2003, gli spagnoli Manuel Torres e José Hinojo nel 2004, i vodesi Claire Koenig e Christine Sefolosha nel 2002, il Manoir de la Ville de Martigny presenta di nuovo un'esposizione duale che questa volta riunisce due artisti ticinesi della stessa età, Ruth e Giancarlo Moro. Insieme formano una coppia armoniosa e complementare.
Ognuno di loro occupa un piano dello studio che confina con la loro dimora familiare, concepita come un esempio di modernità, di semplicità e d'integrazione in questo bel villaggio di Cavigliano. La loro casa è costruita sui terrazzi dei ripidi pendii delle Terre di Pedemonte tra Locarno e le Centovalli. Dai loro rispettivi atelier beneficiano d'un ampia vista sui tetti in pietra delle costruzioni locali, sull'intrico di stradine lastricate e sulle montagne boschive del retroterra. Questo ambiente strutturato, fatto soprattutto di pietra e di verde, non è senza influenza sulle loro ricerche artistiche.
E' in questa oasi di tranquilità e in questa atmosfera di campagna lussureggiante, che evoca le vacanze e inviterebbe piuttosto al dolce far niente, che Ruth e Giancarlo Moro lavorano realizzando ognuno di loro un opera specifica e rigorosa. Influenze reciproche, molto sottili e non sempre evidenti, dimostrano invece che non sono senza rapporto l'una con l'altro.
Giancarlo Moro dipinge a olio. I suoi quadri, di piccoli e medi formati, spesso oblunghi, si riducono quasi sempre a una scelta di ripartizione dello spazio in superfici geometriche semplici. La pittura minimalista di Giancarlo è basata su una sottile selezione dei colori e sul gioco dei loro contrasti, del loro splendore, dei loro accordi. I suoi colori favoriti sono i blu e i grigi che si ritrovano nell'ambiente di pietre e di rocce visibili dal suo studio. Toni dolci e teneri che conducono lo spettatore nel sfera mentale della meditazione. I suoi blu, antraciti o ardesia, dialogono sovente con dei rosa pallidi o dei verdi chiari. Alle superfici movimentate e vibranti, elaborate a spatola, che evocano spiagge e superfici d'acqua, rispondono campi di colori quasi puri. La geometria di Giancarlo è rigorosa, ma non obbedisce mai a regole o simmetrie. La comprensione di quest'astrazione lirica può avvenire solo progressivamente e lentamente. Solo uno sguardo paziente e attento permette di penetrare oltre l'opera e di percepire la poesia che vi si nasconde. Più si contempla la sua pittura, più questa vi parla, più si svela, più vi fa vibrare, più vi emoziona. Una pittura dai toni delicati e dalle audacie piene di tenerezza.
Traduction Eric-Alain Kohler
2005
Flaminio Gualdoni
Oltre il retaggio sdrucito della manualità virtuosistica, oltre l’esotismo sapiente della tecnica di radice artigianale: oltre, soprattutto, l’ambigua, ancorché nobilitata, clausola decorativa.
Ruth Moro ha assunto la padronanza compiuta d’una pratica, ne ha fatto l’apparente identità esclusiva del proprio agire, ma per accelerarne le possibilità sino ai territori d’una autentica, motivata espressività.
Le essenze vegetali e le loro leggi di crescita, rese in snudato schema fondamentale, sono i monemi formali che l’artista distilla attraverso il procedimento lento, sapienziale, della raccolta, della manipolazione paziente, dell’accumulazione e della moltiplicazione, il cui esito è l’immagine.
La struttura vegetale si fa segno altrimenti strutturante, insieme saporosamente materico e decantato al punto da farsi matter del pittorico. La regola distributiva, amplificando la natura dei segni sino a farne la ragione struttiva dell’immagine tutta, trova linee-forza e dinamiche visive di potente, sottile suggestione.
Fosse, la pratica di Ruth Moro, solo questo, già le garantirebbe l’omologazione storica entro la storia alta del decorare: il biomorfismo come legge fondamentale dello sviluppo indefinito, l’iterazione con varianti, la confidenza immediata dello sguardo (il vedere, e il toccare con gli occhi) con una sorta d’intima mistica del naturale. E ne farebbe un caso esemplare d’incontro fertile tra cultura e pratica d’Oriente e vicenda occidentale della forma, come ai tempi dell’arte nata sulle vie della seta, come ai tempi del miglior japonisme.
Ben altro, tuttavia, l’artista ha voluto mettere in gioco, e ben altrimenti intenso è il risultato del suo approccio. Questi quadri, entro le cui trame visive l’occhio pascola in uno stato di sospesa plenitudine sensuale, restituiscono, assai più che un effetto, una ragione del fare/far vedere. La sapienza di cui Ruth Moro si è appropriata è consapevolezza intellettuale prima ancora che fabrile, ragione formativa ben più che modalità, rito ben più che processo. E il rito presuppone una misura lunga e alta del tempo, attingendo, dei gesti, la sacralità profonda, una sorta di concentrazione spinta sino all’immissione totale di corpo e mente dell’artista nel senso sorgivo di ogni atto, di ogni attesa, di ogni scelta.
Non manipolatrice, Ruth Moro si fa officiante del segreto del formarsi naturale, appropriandosi del tempo stesso connaturato al formarsi, dei suoi silenzi, delle sue sospensioni, delle sue germinazioni sino a farne un individuo, forma dell’identità, nell’ambito artificioso ma intellettualmente delucidato e motivato del pittorico.
Per questo, nell’operare suo più recente, la primaria filigrana decorativa, la sopravvivenza della meraviglia visiva, sempre più lascia luogo al senso oscuro, non compiacente, della generazione. La clarté che regola il processo si è ritratta, si è fatta intima: ciò che mostra, è il segreto del nascere della forma.
Traduction Eric-Alain Kohler
2004
Claudio Nembrini
La storia dell'arte moderna presenta alcuni casi, anche illustri, di coppie d'artisti che hanno operato gomito a gomito, con esiti sorprendenti, anche se non senza difficoltà.
Da Modigliani e Jeanne Hébutèrne, a Robert e Sonia Delaunay; David Alfaro Siqueiros e Frida Kahlo a Hans e Lea Grundig; da Zoran Music e Ida Barbarigo a Pietro Plescan e Tata Ferrero, e siamo nel contemporaneo. A volte la vicinanza ha giovato al lavoro di entrambi, anche se è facile immaginare come la presenza di una personalità forte abbia condizionato l'altra o l'altro. Ma anche in questi casi - si pensi alla Hébutèrne accanto a Modigliani - nonostante la comprensibile sudditanza psicologica, é poi emersa la sua personalità, artisticamente "inferiore", ma tutt'altro che trascurabile, anche quando la vicinanza si sente.
In altri casi, le singole esperienze si sono orientate verso strade diverse, apparentemente senza toccarsi.
Vi sono infine situazioni in cui la personalità degli artisti accoppiati si è rivelata di piu' o meno ugual spessore, pur nella singolarità delle rispettive ricerche. Sono forse le realtà piu' interessanti, soprattutto se il confronto quotidiano ha arricchito il lavoro di entrambi, senza privarle di quegli ingredienti che spesso nascono nel silenzio e nella solitudine. Le esperienze di Ruth e Giancarlo Moro, cosí vicine e cosí diverse, nel loro incontrarsi e nel loro allontanarsi, a volte nel loro influenzarsi ( non sono mai sfociati in opere a quattro mani ?) sono nati in uno spazio fisico concomitante, sicchè per molti versi sono esemplari dell'ultimo aspetto ricordato. La rassegna alla Pangeart, che per la prima volta in Ticino dà conto in simultanea della loro attività ( per Giancarlo Moro si tratta in oltre del primo cimento in pubblico nella nostra regione a sessant'anni ) oltre che per il significato delle singole opere costituisce uno sguardo, o se si vuole, una sorte di irruzione silenziosa nell'officina ( o nelle officine ) che le ha viste nascere.
Le note critiche sono di Claudio Nembrini.
Dov'è il punto di incontro o di rottura fra l'invenzione creativa e la pratica rituale-artigianale?
L'osservatore a volte non si pone la domanda e forse, nel tempo, non se la pone neppure l'artista, vivendola come fatto unitario, cosí come l'arte alle origini era: una tecnica (techné) cui, sucessivamente, è stato affidato il compito di " armonizzare l'io e il mondo nella concretezza di una forma sensibile". L'arte diventa cosí testimonianza dello spirito , attraverso la circolarità di un processo che sale dalla misura artigianale alla creazione intellettuale. In epoca recente, i due fattori sono stati accostati mantenendone la distanza: si pensi all'arte concettuale. L'elemento artigianale diventa cosí semplice supporto dell'idea, mai vi si fonde, incarnandola.
In esperienze come quelle di Ruth Moro, invece, lo spirito penetra la materia e questa si dischiude allo spirito, si trasforma in una forma sensibile, con una sua valenza estetica. E' quella che si vede, con la sua pregnanza tattile, la sua forza retinica, la sua carica espressiva. Il suo valore ed il suo significato vanno considerati su questo terreno. Nondimeno il processo che ne stà all'origine, cui si è accennato, è singolare e affascinante, al di là degli esiti estetici.
Vi concorrono gli elementi vegetali ( foglie, frutti, cortecce, steli ), la loro trasformazione naturale. Un semplice fatto botanico? L'artista artigiana cuoce nella soda gli elementi naturali, finché ne sopravvive la sola struttura, insieme alla cellulosa. E' a questo punto che inizia la fase centrale del rituale, dettata dalla esigenza di sospendere il processo, e insieme, di sondarne gli aspetti misteriosi. L'azione, che puó richiamare antiche pratiche alchemiche, porta a scoprire l'anima del vegetale, a lavorare sulla polpa, tingendola, risciaquandola, individuandone i segni, le geometrie proprie di ogni vegetale, arrivando quindi alla carta tramite un lungo e ostinato processo di trasposizione e reinvenzione.
Alla fine, attraverso gli elementi naturali cosí ottenuti, corpi essenziali di un nuovo alfabeto, e grazie alla fase finale del rituale( asciugatura , uso del torchio ) l'artista dà vita all'opera definitiva.
In un certo senso, il processo che abbiamo disinvoltamente riassunto, costituisce un suggestivo viaggio di andata e ritorno dalla cultura alla natura ( per certi aspetti parallelo ma inverso a quello del marito Giancarlo), forse piú ricco e complesso di quelli usuali ( dalle tecniche pittoriche classiche all'impiego di sofisticati mezzi tecnologici recenti). Ma a differenza di quest'ultimi, asettici e freddi, quelli rituali-artigianali adottati da Ruth Moro diventano un tutt'uno con l'atto creativo, al punto, come si diceva, di far dimenticare lo stacco tra momento artigianale e invenzione artistica. L'equilibrio sottile che ne deriva certamente infonde all'opera finale la magia, la grazia, la misura spirituale, anche la poesia , frutto di un dosaggio sapiente e misterioso tra l'essenza della natura e l'opera dell'artista che l' ha rivisitata, reinventandone l'ordine e la bellezza.
2002
Presentazione di Claudio Guarda all'inaugurazione della mostra
“Suoni monocromi”, Museo Epper, Ascona 23.5.2002
Suddividerò il mio breve intervento in due momenti:
– il primo esplicativo su come la Moro proceda e arrivi a creare queste sue carte;
– il secondo interpretativo, sul significato e sul valore artistico che esse
finiscono per avere.
1. Il lavoro artistico di Ruth Moro parte da molto lontano e, potremmo dire, con intendimenti estetici, di raffinatezza e qualità, ma non ancora artistici pur essendo profondamente connessa a certi movimenti d'arte avanguardistica. Il suo punto di partenza è stato la creazione di carta vegetale a partire dagli elementi vegetali - fili d'erba, foglie, steli ecc. - una volta depurati dalle impurità che occupano gli spazi intermedi dentro la struttura ramificata e capillare che è lo scheletro di una foglia o di un petalo o di uno stelo.
La "paper art" si è originata dalla pop art negli anni '70. Degli artisti, principalmente americani e giapponesi (lunga tradizione), hanno cominciato a sfruttare la carta non solo come supporto dell'opera ma in se stessa, come materia con cui si può costruire un oggetto d'arte (c'è in questo un'intenzione di ascendenza popartistica di andar contro e denunciare il consumismo imperante) oppure come riscoperta della qualità originarie ed estetiche del fare carta secondo antichi processi. Ruth Moro ha cominciato la sua esperienza dentro quest'ultimo solco.
Il processo per ottenere tutto questo è lungo e complesso, esige pazienza e attenzione ma alla fine viene premiato dalla raffinata testure dei fogli ottenuti che si differenziano per trama e spessore, per frammenti di vegetali che ancora vi si vedono incorporati, a seconda del tipo di vegetale usato. Questi fogli, ottenuri con un processo assolutamente naturale e privi di colle industriali, ottenuti per purificazione, selezione e compressione dell'elemento vegetale, ciascuno con il loro colore naturale o sbiancati o delicatamente colorati con pigmenti naturali, sono ora pronti per essere ammirati se stessi o per accogliere il segno, la grafia, la scrittura, la traccia che il poeta, l'artista vorrà ora lasciarvi.
Questi fogli rappresentano una risalita in epoche remote e lontane, in quanto ci riportano al momento in cui l'uomo ha inventato la carta a partire dalle fibre vegetali.
Questi fogli rappresentano però anche un'intenzione, uno spirito, un'anima controcorrente, un desiderio inespresso ma reale: la volontà di ricongiungimento con la naturalità e la natura, con la manualità e la raffinatezza artigiana, in un'epoca in cui l'industrializzazione e la produzione di intensiva (e penso proprio all'inondazione di carta e ai problemi ambientali che essa ha posto e pone in epoca come la nostra);
Questi fogli si distinguono però anche per la loro raffinatessa e unicità, perché si sente che sono il frutto di un lavoro non seriale, manuale e portato avanti con pazienza, con esperienza, con amore: ed è ciò che li rende ancora più preziosi e raffinati, diversi dall'uso consumistico, dell'usa e getta cui normalmente è destinata la nostra carta. Noi sentiamo che questi fogli sono fatti per vivere in se e per se, oppure per ricevere solo qualcosa di raro, di unico, di diverso. E' con questi fogli che Ruth Moro ha cominciato a farsi conoscere dentro e oltre i confini nazionali in mostre collettive in Svizzera, Italia, Francia, Giappone, Olanda, Gran Bretagna, ecc.
2. Ma il salto più importante, la vera scoperta dal valore di una rivelazione sarebbe avvenuta poco più tardi, o poco più in là, quando, lavorando attorno queste problematiche e a queste sue soluzioni, improvvisamente capì che si poteva del tutto rovesciare il senso o la funzione normalmente attribuiti alla carta. Da quando fu scoperta, la carta ha sempre rappresentato il mezzo più duttile e leggero per l'uomo che intendesse estrinsecare i suoi segni. In fondo, fare carta altro non significa se non creare un supporto di fibre atto a recepire una traccia, una scrittura.
Lavorando con le strutture primarie dei vegetali di colpo la Moro si rende conto di avere tra le mani un alfabeto naturale che aspira ad emergere, ad affiorrare, a parlare per quello che è. E' un insieme minimo e differenziato di strutture vegetali che si offre all'artista e che chiede all'artista di assecondarlo, di fare il vuoto in sé, di mettersi a sua completa disposizione, di farne uscire la voce e le sue potenzialità espressive. Non è più l'artista che parla, ma l'artista che asseconda una voce che viene da lontano e che giace nascosta sotte le apparenze delle superfici. Ed è la struttura vegetale stessa, nelle sue diverse forme e lunghezze, a determinare accostamenti, sovrapposizioni, rapporti, ritmi, cadenze. Ogni vegetale ha il suo segno e la sua voce, la sua struttura che bisogna scoprire e assecondare.
Le nuove carte della Moro non sono predisposte per accogliere la scrittura, il disegno o la stampa, sono esse stesse in sé, scrittura ed espressione grafica. Meglio: le nuove carte della Moro non sono predisposte per accogliere la scrittura, il disegno o la stampa di un uomo, sia pure un grande artista, son invece esse stesse, in sé, scrittura ed espressione grafica della natura che ci si svela.
Dall'artigianato all'arte.
È qui, in questo rovesciamento di posizione e di pensiero, che l'opera della Moro è passata dall'artigianato per quanto raffinato e prezioso all'arte: dove si noti che la parola artigianato già implica il concetto di arte, di fatto ad arte, ma è anche altrettanto chiaro a tutti che l'arte implica intendimenti e visioni che vanno oltre la raffinatezza e l'eleganza, per farsi invece visione del mondo, per assumere posizione e pensiero nei confronti del mondo e della vita.
Ora l'operazione che la Moro fa è di dar voce alla poesia della natura, di quella natura dove struttura funzione (non si dimentichi che quelle cose che noi vediamo sono le strutture portanti, lo scheletro di cemento armato, le vene che portano la linfa ...) e armonia, ritmo funzionano in un tutt'uno. Ogni foglia nasconde la sua particolare voce, ma tutte le voci sembrano rispondere a un unico ordine superiore di chiarezza, semplicità e armonia. L'anima delle foglie diventa lo strumento che detta le diverse composizioni, ogni composizione è caratterizzata dalla magia delle trame che ogni foglia nasconde.
Le virtualità espressive degli elementi vengono poi esaltate dalla Moro giocandone con le naturali trasparenza, non dirado in controluce, come un filtro tra noi e la luce che sta dietro, o esaltandone le qualità con interventi pittorici, con colori che ne esaltano l'anima; la luce bassa e scura o rimandata in un gioco mutevole di riflessi e trasparenze, immette anche il senso del tempo e del divenire che ritorna su tutti noi che ci specchiamo in questi suoi lavori.
Mi piace allora concludere questo mio breve discorso con le stesse parole con cui l'ha concluso Walter Schönenberger nel suo testo introduttivo: "Ruth Moro è diventata l'interprete privilegiata di uno spartito immenso dai mille variegati accordi. Non a caso ha chiamato la presente mostra suoni monocroni; con troppa modestia, direi, perché sempre di musica si tratta".
2002
Walter Schönenberger
Vi sono due tipi di procedimento artistico contemporaneo che sono scomparsi dall'operare moderno o sono stati travisati o deviati nei vicoli ciechi del soggettivismo a oltranza. Uno consiste nella lettura di quell'alfabeto di segni, in quel repertorio di forme perfette di cui la natura è prodiga. L'altro (che può allearsi al primo) considera l'operare dell'artista come un cammino verso una rivelazione attraverso tutti i passaggi tecnici vissuti come tappe di un progress, come i momenti di una trasformazione alchemica fino al raggiungimento dell'oro dei filosofi.
L'ultimo grande momento della natura come maestra risale alla fine dell'Ottocento e all'inizio del secolo che lo segue, con i vari movimenti dell'Art -Nouveau .Ma si trattava soprattutto di decorativismo o al massimo ci si fermava al Linguaggio dei Fiori.
Nell'arte moderna la natura è spesso materia, sostanza primordiale che si traduce poi in testure, spessori che fan da supporto alla gestualità del singolo. Certi esiti di Klee ( specialmente nella serie dei giardini) rimandano a una lettura di fenomeni naturali, più per casuale convergenza che per un'analisi dei segni insiti nella natura. Individuazione di ritmi fondamentali più che ascolto di una voce particolare. Le ali di farfalla, le foglie spesso usate da Dubuffet sono anch'essi materiale, diverso nell'origine ma simile nel risultato, da utilizzare in un'espressione ridotta al suo livello larvale. Per ritrovare quei due approcci che ho menzionato all'inizio, che sono approcci religiosi, presenti nel nostro medioevo e in tutte le culture tradizionali, bisogna avvicinarsi a due ricerche che non appartengono al procedere artistico anche se spesso l'hanno intersecato: il simbolo, l'archetipo in C. G. Jung e alcuni libri di Adolf Portmann che hanno individuato nelle forme della vita (in animali e vegetali) una spinta estetica che rimanderebbe a una iniziale volontà di bellezza divina.
Ogni tanto, nel panorama del secolo appena trascorso, qualche voce isolata appare a ricordare che l'arte, come attività umana, è riconoscimento di codesta volontà di bellezza che l'artista, tramite il suo talento e i vari procedimenti elaborativi a cui si sottopone, restituisce con l'umiltà di chi sa che più la trasposizione dell'immagine dell'altro mondo si è compiuta con minore interferenza di un ego compiaciuto, più perfetta è l'opera che nasce dalle sue mani. E' lo scatto liberatorio del monaco zen che ritrae il ramo di bambù dopo essersi immedesimato in esso. E' il vero senso del detto medioevale, riferito alle corporazioni di artigiani, impara l'arte e mettila da parte.
Tutto quanto sto ricordando - e mi scuso con l'artista di cui avrei dovuto subito occuparmi - si trova in misura esemplare nella ricerca, ormai quasi decennale, di Ruth Moro che, confesso con mia confusione, ho conosciuto soltanto da poco tempo. Di lei si è parlato in qualche servizio giornalistico e televisivo e, sorge il dubbio, più come caso singolare che come messaggio fondamentale. Ruth Moro ha esposto più fuori del Ticino, persino nel Giappone dove è molto apprezzata e ha avuto un premio. Il suo modo di procedere è stato puntualmente descritto nei testi importanti di Maria Will e di Claudio Guarda. La scelta, durante la buona stagione, delle sàmare dell'acer platanoides e dell'acer pseudoplatanus, delle brattee della tila cordata, gli steli dell'equisetum telmateia, i petali dell'hydrangea quercifolia, i frutti della firmiana simplex e gli steli della molinia, per citare i vegetali più usati, poi la cottura del materiale con la soda caustica, fino a ottenere, mediante la distruzione delle impurità, la sola trama della foglia, della brattea, della sàmara, del petalo: che è il reticolo che trasporta la linfa, cioè la vita, (l'anima della pianta, secondo l'artista) raggiungendo l'estremità delle foglie. Il procedimento adottato da Ruth Moro parte dalla fabbricazione della carta a mano con fibre vegetali. Ma in questa singolare pratica espressiva il risultato non è più un supporto più o meno prezioso e variamente utilizzabile bensì sono la trama, l'intreccio stessi a farsi protagonisti con gli elementi resi visibili che li compongono e vengono così esaltati nell'essenzialità delle loro nervature, nel ritmo da loro suggerito.
Gli scrittori che ho citato prima hanno ricordato un procedimento alchemico e così l'artista stessa in un'intervista fattale dal marito. E' il procedimento cui ho accennato all'inizio del mio scritto: ricerca di verità attraverso l'applicazione, dedita, di una serie di tecniche che nella loro costrizione diventano liberatorie, nella misura in cui aprono gli occhi, illuminano. Non l'arbitrio di chi pesca elementi a seconda dei propri umori, ma ricerca paziente, metodica (che non esclude ma comprende l'ammirazione per le forme della natura) impostata sulla resistenza del vegetale ai trattamenti cui dev'essere sottoposto. Ciò spiega perché l'artista, di fronte alla varietà di forme offerta dal mondo vegetale, si sia soffermata su poche specie, sufficientemente solide nella loro struttura, ma dalla nervatura chiara, elegante e ricca di varianti.
Nella conversazione con il marito, Ruth racconta il suo iter che è più un cammino, un progress, verso una meta, sempre rinnovata, un viaggio interiore che si appoggia su un'estensione temporale, effettiva, e un agire in un contesto decisamente concreto: l'anno scandito dalla crescita, dallo sviluppo delle piante, la loro raccolta, la selezione, i vari procedimenti. Sui loro fragili supporti esse serbano la loro quintessenza, quell'anima evidenziata dalla delicata filigrana delle loro nervature. Le loro strutture hanno determinato il ritmo che è diventato composizione: segni che ricordano misteriosi alfabeti, con le ali del seme dell'acero, le vele del fiore di tiglio che determinano un'impostazione spesso più densamente cromatica, con velature e sovrapposizioni, i petali tondeggianti dell'ortensia che invitano a percorsi circolari, spiraliformi, labirintici , l'equiseto che si trasforma in una fitta trama materica dove la forma della pianta è totalmente scomparsa. Nella mostra di Ascona ci sono in maggioranza composizioni montate su una tavola in legno, poi trame in trasparenza nel loro contenitore in plexiglas e qualche esempio di serigrafia. Le specie vegetetali scelte sono l'acero e il tiglio. Ruth Moro ha seguito l'invito delle delicate strutture vegetali che ha individuato, raccolto, selezionato, ha ascoltato il loro canto e con le sue agili mani ha costruito fragili reti che hanno catturato un po' di luce, un po' di vita; è diventata l'interprete privilegiata di uno spartito immenso dai mille variegati accordi. Non a caso ha chiamato la presente mostra Suoni monocromi; con troppa modestia, direi, perché di musica si tratta!
1999
Maria Will
Simili piuttosto a trine che non a ciò che comunemente si intende per fogli di carta, le opere di Ruth Moro vivono di una loro peculiare inafferrabilità. Inafferabilità che a volte è evanescenza, altre volte invece presenza asserita ma tanto estranea all'ordine del conosciuto da risultare enigmatica.
Simili piuttosto a trine che non a ciò che comunemente si intende per fogli di carta, le opere di Ruth Moro vivono di una loro peculiare inafferrabilità. Inafferabilità che a volte è evanescenza, altre volte invece presenza asserita ma tanto estranea all'ordine del conosciuto da risultare enigmatica. È strano infatti come un tale lavoro, connaturato in modo così stretto ed esclusivo al materiale di cui si compone, sfoci poi in esiti tanto distanti da esso al punto addirittura da annullarlo.
Eppure, per quanto, di fronte alle composizioni di Ruth Moro, il rimando spontaneo e legittimo vada ai tessuti, ai disegni, ai dipinti, alle vetrate anche (e non vi è dubbio che ulteriori possibilità si possano aprire), la loro fedeltà alla propria origine e alla propria sostanza vegetale risulta indiscutibile e persino da ciò paradossalmente rinfrancata: l'unità minima espressiva - il segno - che caratterizza le singole opere è infatti data nient'altro che dalla struttura stessa dell'elemento vegetale di volta in volta scelto a 'strumento' dall'artista (le eliche del seme dell'acero, le brattee della firmiana piuttosto che gli steli dell'equiseto o i petali dell’ “hydrangea quercifolia”, che insieme alle brattee del tiglio sono le fibre vegetali predilette dall'artista).
Ed è esattamente entro i precari equilibri del sottilissimo gioco offerto da questa particolare contraddizione che opera Ruth Moro: tenere i fili del gioco significherà allora guidare ai fini di una ricerca personale una materia che mette in campo forze e caratteri propri, una materia che diventa interlocutrice.
Si è qui evidentemente nell'ambito della tecnica, ma, altrettanto evidentemente, si è anche oltre. L'arte della carta, così come la interpreta Ruth Moro che vi affida l'espressione della propria creatività, si rivela un'unione intima e inestricabile del momento fabbrile e del momento ideativo - o più propriamente inventivo. Del tutto in consonanza con quella concezione dell'arte che in seno alla moderna civiltà occidentale è venuta sempre più affermandosi quale sintesi di tutte le facoltà dell'individuo, in alternativa all'esclusivo privilegio della sola facoltà intellettuale, anche il lavoro di Ruth Moro risponde in sostanza all'esigenza di svelare e mettere in circolo l'armonia tra individuo e universo, tra sé e l'altro da sé. Perciò la voce dell'artista cessa di essere voce singolare per farsi voce che accoglie la molteplicità.
La voce, o meglio il canto che sgorga dai lavori di Ruth Moro è un canto quantomai gentile, che si dispiega in una poesia semplice, diretta, tesa a cogliere al volo immagini fuggenti; evanescenti come le carte nelle cui maglie quella poesia per incantesimo si imbriglia.
Gli opposti entro cui si genera e vive l'opera di Ruth Moro hanno una loro estrema formulazione nel contrasto tra l'oscurità del duro e rigoroso lavoro che essa comporta e l'affermarsi della struttura dell'opera stessa nella luce; nell'opposizione tra il caos della massa d'origine e l'armonioso ordine dettato dall'intervento dell'artista.
È infatti finalmente alla luce che l'artista consegna le sue composizioni, affinché essa dia loro il suggello ultimo dell'impossibilità di ogni definizione durevole: disegnate nell'aria per effetto di trasparenza oppure esaltate nella loro trama da uno studiato fondo, queste composizioni - che diventano composizioni di luce - variano con il variare della luce, inserendosi nel flusso inarrestabile del tempo che tutto muta.
1999
Claudio Guarda
Da quando fu scoperta, la carta ha sempre rappresentato il mezzo più duttile e leggero per l'uomo che intendesse estrinsecare i suoi segni. In fondo, fare carta altro non significa se non creare un supporto di fibre atto a recepire una traccia, una scrittura.
Da quando fu scoperta, la carta ha sempre rappresentato il mezzo più duttile e leggero per l'uomo che intendesse estrinsecare i suoi segni. In fondo, fare carta altro non significa se non creare un supporto di fibre atto a recepire una traccia, una scrittura.
Pure, se per uno strano destino, anziché sovrapposti, quei segni potessero emergere dal di dentro, non quelli che l'uomo vi traccia con la sua mano, ma quelli interni, celati sotto le spoglie dell'elemento vegetale - oltre la bellezza di foglie e fiori, per arrivare invece dentro le fibre dei tessuti, agli elementi portanti - forse, davanti ai nostri occhi, s'avvererebbe lo stupore d'una nuova scoperta: e vi scorgeremmo le forme primarie della struttura vegetale, l'armonia dei ritmi, il sorprendente accordo dei toni, l'umile francescana poesia di "coloriti fiori et herba". Che è appunto la qualità più alta e ad un tempo la più semplice e naturale di questo diverso modo di fare carta con le piante.
Quello di Ruth Moro è un rituale silente che si svolge in parallelo con il giro largo del sole, nell'arco delle stagioni: comincia con la raccolta degli elementi primari, foglie fiori e semi che la natura abbondante generosamente dona o dissemina al suolo in tempi e modi diversi. Solo più tardi, nel raccoglimento del suo atelier, appartato ed immerso nel verde, quel materiale verrà pazientemente selezionato, lavorato, cotto, lavato, purificato fino alla messa a nudo dell'intima struttura portante, vale a dire quell'intrico sottile di vene e di arterie che si dipartono da un nerbo centrale. Il processo è minuzioso e delicato, segue la cadenza lenta dei giorni invernali: ma è su questi tempi lunghi che nasce l'incontro, è in questa prolungata attesa - che diventa ascolto e dialogo - che le strutture primarie suggeriscono il loro percorso.
Ciò che distingue queste delicatissime carte di Ruth Moro è che nel momento in cui le compone l'artista non si impone al materiale, ma lo asseconda, lo segue, si lascia guidare dalle sue forme e dalle sue voci; in certo qual modo essa fa una sorta di vuoto controllato dentro di sé per lasciarsi permeare dal dettato stesso della natura. Dietro queste sue opere non c'è quindi solo una ricerca di esiti estetici, ma un atteggiamento della mente e dello spirito, una disponibilità all'incontro, un modo diverso di guardare e di rapportarsi alla natura, di vivere con essa, al suo passo, con i suoi ritmi.
Ne escono risultati di grande fascino e semplicità ad un tempo: a volte più dichiarativi e strutturali, quando la composizione privilegia ed accentua la ferrea scansione dei nerbi portanti; altre volte più delicatamente pittorici e atmosferici quando, nel libero gioco delle sovrapposizioni, ecco imprevedibilmente emergere linee ondulate e ritmi sincopati, variazioni di profondità e di colore con alternanza di bianchi, di grigi e di neri che tramano la superficie del foglio.
E mentre l'occhio rimane incantato da questo mondo segreto di delicate trasparenze, quasi sipari d'infinito tesi su fragili ragnateli, la mente non può che interrogarsi sulle sorprendenti affinità e intime consonanze che, d'improvviso, sembrano avvicinare espressioni d'arte tra loro lontanissime: da quella colta di certo '900 europeo (in particolare Klee) all'espressività primitiva o tribale di certe popolazioni africane o oceaniche, dai tatuaggi amazzonici alle decorazioni di stoffe e pareti, dai disegni su corteccia dei Mbuti, in Africa, ai ricami colorati (Les molas) dei Kuna nel Panamà. Si sarebbe tentati di dire che con questa voce svelata della natura, la Moro metta a nudo l'archetipo che fa da comune denominatore a espressioni artistiche tanto diverse e lontane.
Queste piccole carte - ma l'armonia deriva appunto dal connaturato rapporto tra l'elemento di natura e il suo proporzionale spazio di svolgimento - si caricano così di una suggestione che scavalca il tempo ed accorcia lo spazio: se messa a nudo ed assecondata, l'anima vegetale della natura non rivela solo le sue forme strutturanti ma anche la poesia del suo ordine interno; non solo la funzionalità delle sue nervature ma anche la musica segreta dei loro ritmi e colori; e nella finitezza di un petalo che dà vita all'espandersi di un foglio, dettando ritmi e suggerendo sviluppi che gli sono propri, si rinnova ed espande tutta l' "armonia delle sfere" colpite e attraversate dalla luce, microcosmo e macrocosmo si inseguono ed incontrano.
Ciò che affascina nell'arte della Moro è che essa è fatta di un nulla, se non di pazienza, tenacia e di lunga attesa, e tutta vive nella esile filigrana d'una carta che si affaccia su una natura a noi familiare eppure sconosciuta, facendone però uscire l'anima segreta: dall'intrico robusto delle fibre al modularsi leggero delle venature, dalla corposa consistenza dell'elemento 'originale' all'ordine di una geometria naturale. Fino all'aerea architettura delle sue ultime composizioni, quasi vetrate - suggerite dalla struttura stessa del vegetale - da cui filtrano la misura di un ordine antico, la luce di un orizzonte lontano.
Risultati indubbiamente originali, dove risuona l'eco di voci nuove, il bisogno di una sintonia profonda con la natura, di cui soprattutto la nostra epoca avverte l'urgenza.
1999
Riflessioni raccolte da Giancarlo Moro
Il rituale inizia con l'estate, quello della ricerca dei vegetali, e si esaurisce sovente solo a inverno inoltrato. Ogni foglia o frutto rivela caratteristiche diverse, in momenti diversi. Qual è il momento migliore per raccolgliere il ginkgo? E per l'acero o la molinia? E l'equiseto lo vuoi bianco o bruno? Si prova e riprova ogni giorno, e ogni giorno porta nuove eccitanti rivelazioni, o nuove delusioni. Le emozioni sono forti e la magia di questa alchimia, quella di trasformare un vegetale in un foglio di carta ti turba i sensi.
Il rituale inizia con l'estate, quello della ricerca dei vegetali, e si esaurisce sovente solo a inverno inoltrato. Ogni foglia o frutto rivela caratteristiche diverse, in momenti diversi. Qual è il momento migliore per raccolgliere il ginkgo? E per l'acero o la molinia? E l'equiseto lo vuoi bianco o bruno? Si prova e riprova ogni giorno, e ogni giorno porta nuove eccitanti rivelazioni, o nuove delusioni. Le emozioni sono forti e la magia di questa alchimia, quella di trasformare un vegetale in un foglio di carta ti turba i sensi.
Con gli anni sono andata a indagare oltre ottanta vegetali. Le foglie, le cortecce, gli steli o i frutti, ma è soprattutto con quattro o cinque di essi che lavoro quotidianamente cercandovi sempre nuovi stimoli, nuove emozioni.
In natura tutto si trasforma. Il processo è continuo. Cosa si cela dietro le parvenze botaniche di un vegetale? E' tutto da scoprire trasformando la materia.
La cottura avviene nella soda caustica. L'odore è acre e penetrante, il processo è violento. Alla fine non rimane che la struttura, l'ossatura del vegetale con la sua cellulosa. Tutto il resto, come in un processo di decomposizione, è stato eliminato.
Ma quando fermare questo processo? Quando le caratteristiche originarie del vegetale sono svelate? Quando la cellulosa che è il solo e unico legante presente si manifesta nella sua massima efficienza? E' veramente difficile stabilirlo, e quindi si prova e si riprova.
E questo continuo provare e riprovare è anche la ricerca di qualche cosa di nascosto, di segreto, che poi si rivela come l'anima del vegetale.
Poi per ore si risciacqua. Le ultime impurità residue vengono eliminate. Quindi si sbianca e si risciacqua, si tinge la polpa e si risciacqua di nuovo.
Solo ora inizia la creazione: pescando direttamente nella polpa con un telaio di legno per i fogli omogenei nella loro struttura. E' il metodo classico. Oppure si lavora con la forma di legno che galleggia sull'acqua, si distribuisce la polpa e intervenendo con le mani si costruisce la composizione giocando con i segni che ogni vegetale invita a scoprire. Io, l'acqua e i vegetali operiamo insieme. Dialoghiamo alla ricerca di qualche cosa di nuovo, ancora latente, tutto da scoprire. O infine, usando il telaio solo come supporto sul quale costruire sfruttando quelle caratteristiche, quelle geometrie che sono insite in ogni vegetale, ma non percepibili a prima vista.
La composizione è sovente complessa, necessita di tempo e ostinazione, ma i fogli che nascono non sono solo carta, sono piuttosto la carta e i suoi segni, quelli dell'anima del vegetale, e diventano fogli con una loro forza autonoma, un loro linguaggio originale.
E il rituale continua con l'asciugatura sotto torchio, tra panni e cartoni che vengono ripetutamente sostituiti fino all'asciugatura perfetta, fino a sentire la loro fragile robustezza tra le dita e vedere i loro racconti davanti agli occhi.